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lunedì 31 gennaio 2011

Road to Nomination: 10 - John Thune



Continua la Road to Nomination di questo blog. Grazie ai minispecial di Fox News andiamo a conoscere meglio 12 potenziali candidati alla nomination repubblicana per l'elezione presidenziale del 2012. Il decimo appuntamento è con senatore del South Dakota John Thune.

Potrebbe essere il primo presidente proveniente dal South Dakota (stato dove Thune è stato eletto senatore) e mentre se ne sta in mezzo alla gente, nel giorno in cui nel suo stato si apre la caccia, dice che i senatori del GOP come lui hanno combattuto la riforma sanitaria di Obama fin dall’inzio.
Certe decisioni vengono da Washington e tutti pensano che vengano prese nel vuoto, ma incidono nella vita di tanta gente che lavora per mettere insieme il pranzo con la cena, questa è la realtà per tanti americani”.
A Thune piace evadere da Washington per andare a caccia con gli amici. “Parlo di politica anche con loro, mi aiuta a vedere le cose dalla prospettiva giusta”.
Thune viene dalla città di Murdo, 679 abitanti inclusi i suoi genitori. Thune a Murdo è stato nella squadra di football, è diventato una stella del team di baseball, e tuttora detiene il record locale sulla distanza degli 800 metri.
Nel 2004 Thune ha sconfitto al Senato l’allora leader della minoranza democratica Tom Daschle, conquistandosi la nomea di killer dei giganti. Fu la nascita di una stella, tanto da finire in copertina del National Journal insieme a quell’Obama che sarebbe diventato Presidente nel 2008.

Thune è diventato così popolare nel suo stato che nel 2010 i democratici non hanno nemmeno provato ad opporgli un candidato alle elezioni di novembre, sulla scheda c’era solo il suo nome, ha vinto con il 100% dei voti (sesto caso nella storia).

Sto valutando l’idea di candidarmi nel 2012. Quando vieni incoraggiato, quando aspiri davvero a mettere il meglio delle tue qualità al servizio del bene pubblico chiaramente consideri l’idea di fare una scelta simile”.
“Mi preoccupa la prospettiva di dover raccogliere tutti i soldi necessari, non è una cosa facile per chi, come me, viene da uno stato piccolo e non particolarmente ricco”.
Se corresse si vedrebbe come un candidato dell’establishment?
Establishment non è una bella parola. No, io sono un conservatore reaganiano, un repubblicano di centrodestra che crede nel limitare il ruolo del governo federale. Il lavoro si crea facendo crescere l’economia, non lo stato. Credo che dobbiamo promuovere una maggior libertà in questo paese, insieme alla responsabilità individuale, sono un conservatore pro-crescita e pro-lavoro”.

Qualcuno pensa che Thune sia troppo un “bravo ragazzo” per battersi nell’arena di un’elezione presidenziale.
La politica moderna è un po’ come uno sport full contact, devi avere la volontà di buttartici senza tirarti indietro e io in passato sono già uscito da un paio di campagne non proprio tranquille”.

Tema centrale di politica estera:
Il programma nucleare iraniano, un problema per il medio oriente, per Israele e per gli Stati Uniti. Ma la vera minaccia per l’America è l’enorme debito che ha messo insieme”.

Thune ha votato per il TARP (il programma varato dall’amministrazione Bush per salvare società e banche in crisi con soldi dello stato), se ne pente?
Mi pento di come è stato usato e abusato. E’ diventato qualcosa di molto diverso da quello che doveva essere. Credo che nessuno immaginasse che sarebbe diventato uno strumento dello stato per possedere industrie automobilistiche, assicurazioni e banche. Oggi sono assolutamente per l’abolizione del TARP, è un pericoloso precedente di ingerenza dello stato nell’economia privata”.

Thune è stato accusato di aver lavorato come lobbista nell’intervallo tra il suo mandato alla Camera e il suo attuale mandato al Senato, e di aver, in seguito, promosso leggi a favore dei suoi precedenti datori di lavoro.
Le mie iniziative hanno avuto come obiettivo la creazione di posti di lavoro nel South Dakota”.

Secondo Larry SabatoThune ha un’immagine forte, funziona bene in TV e questo conta nella politica moderna. Ma dal Midwest in poi è sconosciuto e (se si candidasse) dovrebbe passare tutto il suo tempo a cercare di raccogliere i fondi necessari”.

So benissimoept-Charset: ISO-8859-1,utf-8;q=, ma in una campagna come questa, con i candidati vanno in giro per farsi conoscere dagli elettori, specialmente negli stati da dove iniziano le primarie, penso che sia un problema superabile”.
“Guardate da dove vengo e dove passo il mio tempo. Lavoro a Washington ma non sono una creatura di Washington

My Two Cents for free: Se cercate un candidato che televisivamente possa dare del filo da torcere a Obama la fermata giusta è questa. Al di là del prurito che certe scene di caccia fanno venire a chi scrive, è innegabile che Thune, sul piano della comunicazione, funzioni meglio di molti altri possibili candidati repubblicani. I problemi fondamentali di Thune sono:
A - avere la sua base in un piccolo stato.
B - essere uno sconosciuto in buona parte del paese. 
Solo se riuscisse ad emergere dalle primare dell’Iowa (che confina proprio con il South Dakota) e del New Hampshire con dei risultati capaci di attirare su di sé l’attenzione del grande pubblico la sua campagna potrebbe guadagnarsi i riflettori e i finanziamenti necessari per andare avanti. 

Next Stop: Louisiana, per fare la conoscenza del governatore Bobby Jindal.

Fermate precedenti:

Nuotare o Affogare



C’era una volta il vantaggio tattico di Berlusconi, quello del 14 dicembre, quello delle opposizioni che sbattono il grugno sul voto di fiducia, prendono atto tra un cerotto e l’altro che l’unica alternativa alle elezioni è il governo in carica e mettono da parte i propositi di spallata. Quello della maggioranza che completa l’iter di approvazione della riforma dell’Università e tira la volata al federalismo.
E’ durato un mese, 30 giorni esatti, poi, venuto meno l’argine del legittimo impedimento, la politica è andata a ripararsi in soffitta mentre noi venivamo sommersi da un’ondata anomala di intercettazioni scosciate.

Che Berlusconi venga condannato per sfruttamento della prostituzione minorile non ci crede nessuno, ma che si continuerà a parlare di Ruby e delle sue “sorelle” per settimane non ci sono dubbi. Il rischio è che, per respingere gli attacchi concentrici della Procura e dei tribuni televisivi, il premier cada nella trappola di farsi risucchiare in un botta e risposta senza fine, tra telefonate e videomessaggi, sugli stacchetti delle Coloradine e le virtù pubbliche e private della Minetti.
E allora sarebbe fin troppo facile per Casini, Bersani e compagni riproporre repliche quotidiane della cantilena sul governo che si occupa solo dei problemi di Berlusconi e non di quelli del paese. Non aspettano altro.

Il Rubygate probabilmente è un solo polverone ad uso e consumo dei media e se così fosse la violazione della privacy di centinaia di persone sarebbe a maggior ragione ingiustificata ed inaccettabile, lo sappiamo, siamo d’accordo, è stato giusto dirlo e ci penseranno le prossime fughe di notizie da sotto le lenzuola a costringerci a ripeterlo chissà quante volte, ma adesso bisogna cambiare registro e ricominciare a parlare anche di altro, se non vogliamo lasciare a “Ilda la Rossa” il compito di decidere l’agenda del paese.

E' bastato che riprendesse corpo il sogno ventennale di accompagnare Berlusconi all’uscita che dà sul viale della pensione per ricompattare le opposizioni. Veltroni e Bersani, che non si potevano vedere nemmeno in fotografia, hanno cominciato a farsi gli occhi dolci, e anche i terzopolisti sono tentati dal grande abbraccio.
Ma basterà tornare a parlare di cose da fare, di riforme, di fisco, di giustizia, di federalismo, per vederli dividersi come hanno fatto fino all’altroieri. Se esiste ancora una maggioranza è su questi punti che deve battere un colpo e deve farlo in fretta, perché il dibattito di questi giorni sa sempre più di stantio e la gente inizierà presto a non poterne più.

Se l’esecutivo si mostrerà deciso sui temi che interessano l’elettore medio, e riguadagnerà qualche punto di popolarità, allora anche il famoso allargamento della maggioranza cesserà di essere un semplice argomento di conversazione da scenari ipotetici, non dei più avvincenti tra l’altro, e potrà diventare una prospettiva realizzabile anche nel mondo reale.
Non ci dimentichiamo che nessun parlamentare è insensibile alle sirene della rielezione e quanto più la coalizione di governo sembrerà in salute nei sondaggi, tanto più risulterà attraente per quei deputati, eletti sotto le insegne berlusconiane, che stazionano con poca convenzione nelle zone di frontiera del terzo polo e si guardano intorno, con aria spaesata, quando sentono parlare di sante ammucchiate di liberazione nazionale con D’Alema e Veltroni.

Il governo ha tutto l’interesse a spostare il baricentro del dibattito sul programma e se questo vuol dire impegnarsi in battaglie che dividono l’opinione pubblica tanto meglio, è così che si ritrova l’elettorato del 2008, come ha dimostrato il “bounce” seguito alla riforma Gelmini.
Quindi non è il momento di perdersi in polemiche autoreferenziali a loop infinito. Dateci velocemente, con i fatti, altro di cui parlare.
Adesso o si nuota o si affoga, prendiamo un bel respiro e vediamo se ne abbiamo abbastanza per arrivare fino a riva. Il fiato è prezioso, non sprechiamolo in chiacchiere.

domenica 30 gennaio 2011

Piazza Grande


Veltroni chiama e FLI risponde.
Il nuovo corso della “destra europea” (qualunque cosa voglia dire) si intreccia con quello sempre uguale a se stesso della sinistra di casa nostra, e pare trovarcisi benissimo.
Il 'la' lo aveva dato qualche giorno fa l’ex leader democratico che, dopo essersi tolto di dosso due anni di polvere e naftalina e aver riassaporato la luce dei riflettori del Lingotto, in una lettera a “La Repubblica” lanciava il suo appello all’Italia democratica “Sarebbe bello se in uno stesso giorno, in una stessa ora, in tutti gli ottomila comuni italiani, i cittadini si riunissero nella piazza centrale per dire ”giriamo pagina, ritroviamo l’Italia”.
L’idea è piaciuta da matti a Filippo Rossi di FareFuturo che, a stretto giro di posta, ha raccolto con entusiasmo l’appello veltroniano immaginando un’unica grande piazza dei migliori “c’è un’Italia di persone perbene, di giovani di talento, di precari che subiscono da troppo tempo la «paura del futuro» determinata dall’involuzione di questa Seconda repubblica”.
Insomma un gigantesco abbraccio generale, buoni sentimenti e senso civico per tutti. Ma per fare cosa? Per proporre un idea? un programma? un nome? una ricetta?
Ma no, quel che ci vuole è “una manifestazione non di parte. Senza bandiere, senza comizi che possano dividere”. Ecco, meglio starcene tutti zitti e non parlare di niente, così possiamo far finta di andare d’accordo.

Del resto avere un’idea comune è una necessità sopravvalutata, ce lo insegna la migliore tradizione prodiana: l’unione, per fare la forza, non deve essere a favore di qualcosa, basta che sia contro qualcuno.

E il qualcuno è sempre lui, il nemico pubblico numero uno, quello che ha tele-plagiato milioni di italiani indifesi, di povere menti inermi che avranno bisogno di anni di trattamento sanitario obbligatorio per ritrovare il lume della ragione.
In sostanza il messaggio “nuovo e forte” è una bella ammucchiata di piazza contro l’odiato Berlusconi, come se non ci avesse mai pensato nessuno in questi 17 anni.
E c’è già chi si spinge oltre e immagina un’alleanza costituente per “superare il berlusconismo”.

Tutti contro uno. Non importano i programmi, non importa chi vince, chi ha la maggioranza, chi va a Palazzo Chigi. L’importante è sfrattare il Caimano, così ci libereremo anche da questa noiosa ossessione dell’investitura popolare, del governo che esce dalle urne, dei Premier con troppi grilli per la testa che vogliono fare i Primi Ministri per davvero.

Ecco il sogno che i terzopolisti stanno facendo insieme ai “democratici”: rimettiamoci le parrucche, si torna alla Prima Repubblica. Ai bei tempi dei Presidenti del Consiglio notai delle segreterie dei partiti, che stanno in carica un anno e poi tolgono il disturbo, altrimenti si montano la testa.
Non più leader, ma speaker. Un salto indietro di 20 anni? Macché, se lo diciamo in inglese suona tutta un’altra cosa.

Risposta a Due Mani



E' stato il momento di Paul Ryan. Il GOP gli ha affidato il compito di rispondere discorso sullo Stato dell'Unione  del Presidente Obama e il giovane deputato del Wisconsin si è dimostrato all'altezza della prova. Tutta un'altra musica rispetto alla prova offerta ad esempio da Bobby Jindal due anni fa. 
Sicuro ed efficace, Ryan ha dedicato quasi l'intero primo minuto del suo discorso a fare gli auguri di pronta guardigione alla deputata dell'Arizona Gabrielle Giffords. Poi, per introdurre la necessità di tagliare la spesa  pubblica ("ieri era importante, oggi è imperativo") Ryan ha tirato fuori dal cilindro i suoi tre figli di 6, 7 e 8 anni "se continuiamo su questa strada quando i miei tre bambini tireranno su i loro figli le dimensioni dello stato saranno raddoppiate, così come le tasse che dovranno pagare". In un colpo solo Ryan si è  così presentato come un "family man" e ha fatto preoccupare l'americano medio per il futuro non solo dei figli, ma anche dei nipoti. Può funzionare.
Il discorso ha battuto sulla riduzione della spesa dall'inizio alla fine, ha regalato altri momenti efficaci "non è un caso che la fiducia nel governo sia ai minimi storici mentre la spesa è ai massimi storici" per concludersi con un appello patriota "Nella storia dell'uomo non c'è stato un altro capitolo come l'America, tocca alla nostra generazione passare ai nostri figli una nazione migliore di quella che abbiamo ereditato". Ottimo e abbondante.

Ryan si è trovato però una concorrente in casa. A rubargli parte della scena è stata infatti la deputata Tea Party Michele Bachmann che ha voluto dare una risposta tutta sua attraverso il Tea Party Express. I contenuti sono stato pressoché identici, l'approccio no: il discorso della Bachmann è stato, secondo alcuni, più diretto, aiutato anche dall'uso di grafici che hanno illustrato in modo estremamente efficace, senza nemmeno aver bisogno di citare troppi numeri, l'esplosione della spesa pubblica e del debito nei due anni di amministrazione Obama.



In molti hanno visto nella risposta al discorso sullo stato dell'Unione una rampa di lancio per Ryan verso la nomination 2012. E' possibile, ma non ci dimentichiamo che nel recente passato sono stati più frequentemente gli estensori di risposte "non ufficiali" a correre per la presidenza, come Barack Obama (2008) e John Edwards (2007). La scelta di dare una risposta non "designata" dal partito denota la volontà di far sentire la propria voce che ben si sposa con le amibizioni di nomination.
La Bachmann è un'eroina del Tea Party seconda solo a Sarah Palin, come lei avrebbe pochissime chances di arrivare alla Casa Bianca, ma non ci sarebbe troppo da stupirsi se volesse ritagliarsi un ruolo da protagonista nella giostra delle primarie che partirà tra qualche mese. Time will tell.

venerdì 28 gennaio 2011

Road to Nomination: 9 - Newt Gingrich



Continua la Road to Nomination di questo blog. Grazie ai minispecial di Fox News andiamo a conoscere meglio 12 potenziali candidati alla nomination repubblicana per l'elezione presidenziale del 2012. Oggi un incontriamo personaggio che non ha bisogno di presentazioni: Newt Gingrich.


A differenza di molti altri potenziali candidati, Gingrich è un veterano della politica di Washington, è stato lo speaker della Camera per quattro anni nell’era Clinton.
Quando è stato visto alla fiera dello Stato dell’Iowa (dove, ogni quattro anni, le primarie hanno inizio) qualcuno ha iniziato a pensare che stesse iniziando a prepararsi il terreno.
Correrò solo se penserò di avere delle reali possibilità di vincere, di aiutare questo paese a riorganizzarsi e tornare ad avere successo. Se volessi far rumore potrei farlo anche senza candidarmi, e spenderei molto meno”.

Da quando nel 1998 ha lasciato il Congresso Gingrich ha scritto 15 libri, prodotto 6 documentari, fatto centinaia di apparizioni televisive e collaborato con Fox News. E’ diventato un agglomerato di idee che produce consigli e strategie per ogni repubblicano che voglia ascoltarlo, inclusi quelli nella nuova maggioranza alla Camera.

Devono fare quello che la gente chiede loro assolutamente di fare: respingere la riforma sanitaria di Obama, tagliare la spesa e fermare l’aumento delle tasse”.
Gingrich sa di cosa parla. Si deve a lui una delle più grandi vittorie della storia dei repubblicani, quella delle elezioni del 1994, quando il GOP recuperò ben 52 seggi alla Camera. Prima delle elezioni tutti i candidati repubblicani firmarono il suo “Contratto con l’America” e Gingrich divenne il primo speaker repubblicano dal 1928.

Nel 1996 abbiamo riformato lo stato sociale, l’assistenza sanitaria che stava andando in bancarotta e rieletto repubblicani per la prima volta dal 1928”.

Ma nel 1998, dopo due disastrosi shut down statali, una dura battaglia sull’impeachment di Clinton e una lunga serie di controversie Gingrich lasciò il Congresso e nel giro di pochi anni i deputati repubblicani iniziarono a venire accusati di essere troppo interni al sistema, esattamente come i democratici che avevano battuto. Il 2006 segnò la fine della maggioranza repubblicana alla camera.

Secondo molti Gingrich è uno uomo con grandi idee che a volte però esagera e le spara troppo grosse.

Un partito senza idee raramente viene attaccato dalla stampa, perché la stampa non se ne occupa proprio. Un partito con molte idee a volte commette anche degli errori. Ogni tanto bisogna ammettere di non aver fatto la cosa giusta. Ma se uno corre per la presidenza deve essere più disciplinato, più prudente, più metodico”.

Se Gingrich correrà alle primarie dovrà certamente aspettarsi molte domande sulla sua vita privata, avendo ammesso di aver tradito sua moglie con una donna del suo staff nello stesso periodo in cui chiedeva l’impeachment di Clinton per lo scandalo di Monica Lewinski. Alla fine Gingrich ha sposato quella donna.
Se sarà o non sarà un problema dipenderà da quello su cui il popolo americano vorrà concentrare l’attenzione. Se pensiamo ai problemi del paese e al bisogno di tornare ai principi della costituzione la gente potrebbe dire ‘Newt ne ha viste tante e potrebbe essere la persona giusta’”.

Molti repubblicani parlano di ridurre la spesa, ma pochi di loro dimostrano di avere delle idee precise di dove tagliare. Gingrish da dove inizierebbe?
Prima di tutto tornerei alla spesa discrezionale del 2008, ci farebbe risparmiare 1000 miliardi nei prossimi 10 anni. Bisognerebbe ripensare i sussidi di disoccupazione, dovrebbero diventare dei programmi di aggiornamento.”

Il tema centrale di politica estera:
La minaccia dell’Islam radicale che ogni giorno cerca metodicamente un modo per ucciderci. Sono cose reali. L’Iran è una minaccia, a breve termine finanzia il terrorismo, ma nel lungo termine potrebbero arrivare ad avere armi atomiche”.
Da quando c’è Obama le cose non sono migliorate “La Corea del Nord continua ad accrescere le sue capacità nucleari e non abbiamo fatto niente. l’Iran continua a costruire le sue armi e noi non facciamo niente. Stanno giocando con il fuoco e con la sicurezza nazionale”.


My Two Cents: Gingrich per i repubblicani rappresenta un pezzo di storia e non ha certo il problema di farsi conoscere dall’elettorato. E’ un vulcano di idee, sa come dettare l’agenda e ha già frequentato palcoscenici importanti, ma a volte l'ha fatto con una condotta da scheggia impazzita che non lascia molto tranquillo l’elettore medio. E’ un personaggio discusso e, un po’ come la Palin, è adorato dai fans e detestato dai detrattori il che non ne fa un candidato ideale per l’elezione del 2012. Vista la sua dimensione nazionale è uno dei nomi sui cui già si concentrano le case di sondaggi e i risultati non sono esattamente entusiasmanti E’ il candidato ideale se si vuole garantire ad Obama una rielezione tranquilla.

Next Stop: Ancora Washington, per conoscere un senatore così popolare nella sua South Carolina che alle ultime elezioni nessuno se l'è sentita di sfidarlo: John Tune.

Fermate precedenti:
1 - Mitch Daniels
2 - Haley Barbour
3 - Mitt Romney
4 - Sarah Palin
5 - Mike Pence
6 - Mike Huckabee
7 - Tim Pawlenty
8 - Jim DeMint

Gli Intoccabili


Una sola regola: non ci sono regole”. E' la formula d’obbligo per introdurre quei combattimenti da cui il pubblico sa di potersi aspettare di tutto perché nessun colpo è proibito.
Immaginate cosa succederebbe se nel bel mezzo di un evento del genere uno dei protagonisti  iniziasse a sbracciarsi, reclamasse a gran voce un microfono e poi, con aria grave e un filino sconvolta, si rivolgesse al pubblico in sala per denunciare di aver ricevuto uno scappellotto in testa. Verrebbe preso, messo su una barella e spedito dal medico, e non per farsi mettere i punti.

In Italia nessuno l’ha mai formalizzato ma il “non ci sono regole” è in vigore da un pezzo.
E quando una Procura ordina 100mila intercettazioni al solo scopo di farle pubblicare dai giornali vuol dire che siamo alla licenza di uccidere, vale tutto.

Qualcuno ha sentito una voce di peso della civilissima opposizione levarsi contro lo scempio rappresentato da valanghe di conversazioni private che vengono lette da attori sulle reti della tv pubblica? Macché, se sputtanano Berlusconi hanno il bollino democratico, è fango costituzionale, niente di male.
L’altroieri il deputato dell’IdV Pierfelice Zazzera ha trovato perfettamente normale leggere brani scelti da intercettazioni telefoniche (non quelle della Boccassini, ma in Italia a intercettazioni c’è da scegliere) durante il dibattito alla Camera sulla sfiducia a Bondi, raggiungendo picchi di prosa degni del dibattito sul Ministero della Cultura. A parte un paio di richiami della presidenza nessuno ha avuto da ridire.
Insomma siamo desensibilizzati, niente ci offende e niente ci oltraggia: “non ci sono regole”, nessun colpo è proibito. E’ la guerra bellezza, e qui non vale nemmeno la Convenzione di Ginevra.

Un momento però: non ci sono regole finché a picchiare sono i “buoni”. Se ai “cattivi” viene la bislacca idea di provare a difendersi devono farlo in punta di fioretto, perché i “buoni”, quando si parla di loro, diventano di pelle sensibile.
Succede così che ieri, dopo giorni passati a sguazzare allegramente nel fango mediatico tra insulti, volgarità e pecoreccio vario, le anime belle dell’opposizione abbiano sentito il bisogno di lasciare  l’aula per non ascoltare lo scabroso intervento del ministro Frattini che, rispondendo ad un interrogazione, in spregio al comune senso del pudore, ha preso la parola al Senato per dire che le carte inviate dal governo di Santa Lucia sulla proprietà del famoso appartamento di Montecarlo sono autentiche e che - mandate a letto i bambini, arriva la parte vietata ai minori - “la lettera quanto il documento allegato sono stati inviati per le valutazioni di competenza alla Procura della Repubblica di Roma”.

La sensibilità di chi ieri ha abbandonato l’aula era già stata messa a dura prova, qualche giorno prima, dall’inqualificabile intervento di Berlusconi durante la trasmissione “L’Infedele” di Gad Lerner. Insomma c’è un limite a tutto, il fatto che una mezza dozzina di persone ti insulti per due ore in prima serata non vuol dire che tu abbia il diritto di replicare senza nemmeno fare i rituali complimenti per la trasmissione.
Ha perso il senso della misura” è stato il commento di Futuro e Libertà.

Certo è facile fare i maestrini dalla penna rossa quando sotto al fuoco nemico ci sono gli altri. Ma quando ai maestrini capita di trovarcisi in prima persona ripongono delicatamente la penna nel cassetto e dimostrano di saper far roteare l’ascia.
Come si permettono questi berlusconiani di mettere in discussione l'onorabilità del Presidente della Camera? E su basi così inconsistenti poi. Perché se l’accusa a Berlusconi si fonda sulla solida roccia di qualche allusione presa qua e là tra mille chiacchiere in libertà, quella a carico di Fini ha come debole pezza d'appoggio  solo un  documento ufficiale, nero su bianco, di un governo straniero. Carta straccia
Comprensibile dunque che Bocchino indica una conferenza stampa per dirci che l’affare Montecarlo è una “operazione di marco goebelsiano”, il Presidente del Consiglio è “il mandate” e il Ministro degli Esteri è un “fattorino” che risponderà della sue colpe al Tribunale dei Ministri. E infine, per concludere in gloria, “se c'è un presidente che deve dimettersi è Schifani” (frase poi rimangiata alla prima domanda utile). Un esempio di raro senso della misura.

E che dire della reazione stizzita ed oltraggiata della Procura di Milano che, dopo aver messo la firma sulla più abnorme operazione di sputtanamento ad personam che si ricordi, ha trovato il coraggio di dirsi scandalizzata per la “denigrazione” e gli “attacchi personali” di un organo di stampa che, non avendo i mezzi invasivi della procura, non può che limitarsi a riportare e commentare pubblici atti del CSM?

Cari signori, nessuno può pretendere di essere intoccabile. Chi ha ridotto il livello del dibattito pubblico italiano ai livelli di bassezza di cui siamo testimoni da anni, scatenando o cavalcando  campagne di fango in cui non ci sono limiti e tutto è permesso, è l’ultimo a potersi lamentare se la sera torna a casa con qualche schizzo sui vestiti.

giovedì 27 gennaio 2011

Road to Nomination: 8 - Jim DeMint



Continua la Road to Nomination di questo blog. Grazie ai minispecial di Fox News andiamo a conoscere meglio 12 potenziali candidati alla nomination repubblicana per l'elezione presidenziale del 2012. Oggi facciamo la conoscenza di Jim DeMint.


Due anni fa Jim DeMint, senatore del South Carolina, non sarebbe stato incluso tra i papabili per la presidenza, ma molte cose sono cambiate da allora.
DeMint veniva chiamato con il soprannome “senatore Tea Party” prima che il Tea Party stesso diventasse un fenomeno di massa e prima ancora che Obama arrivasse alla Casa Bianca. E proprio questa sua caratterizzazione ne fa oggi un potenziale sfidante per la nomination repubblicana.

Sono fiero di essere chiamato senatore Tea Party, perché sento di dare voce a persone che sono molto frustrate di essere così poco ascoltate a Washington”.

DeMint è stato eletto deputato nel 1998 e ha poi conquistato un seggio al senato nel 2004 guadagnandosi in fretta la nomea di “pork buster” (per “pork” si intendono quei programmi governativi destinati a finanziare precisi settori dell’economia o della società). Nel 2008 DeMint ha votato contro il controverso programma di aiuti economici del Presidente Bush, meglio noto come  TARP,  che poi si è trasformato nel gigantesco piano di salvataggio delle banche che tutti conosciamo. Un voto che, secondo alcuni, è stato il momento di concepimento del Tea Party.

Mesi dopo DeMint ha guidato la crociata contro il programma di stimoli da quasi un miliardo di dollari varato dall’amministrazione Obama, una battaglia fallita, ma che ha lasciato DeMint ancora più determinato.

Qualcuno lo trova troppo ruvido e poco incline a collaborare con gli altri. DeMint ci ride su:
Il cambiamento ha bisogno di prese di posizione forti. Il potere è così radicato, così costruito sulla distribuzione del denaro pubblico. Come il cibo lanciato agli animali allo zoo, è così che la vedo io e il mio impegno è cambiare le cose”.

Alle scorse elezioni di mid term DeMint ha finanziato e sostenuto con forza alcuni candidati conservatori che hanno sfidato l’establishment del GOP. Qualcuno di loro hanno vinto, come Marco Rubio in Florida e Rand Paul in Kentucky, altri sono stati sconfitti come Ken Buck in Colorado, Sharron Angle in Nevada e Christine O’Donnel nel Delaware. Aver appoggiato in modo così deciso i candidati del Tea Party ha reso DeMint meno popolare tra alcuni dei suoi colleghi repubblicani. La cosa non sembra turbarlo più di tanto.

L’amicizia è una cosa molto importante per me, ma non è quello su cui ho giurato, ho giurato sulla Costituzione e c’è un motivo se lo facciamo, perché se non ci credi non puoi fare il bene del paese”.

I Repubblicani a questo punto hanno ricevuto il messaggio?
Penso di si, con poche eccezioni”.
Alcuni repubblicani come Mitch Daniels hanno suggerito una tregua sui temi sociali per concentrarsi sull’uscita dalla crisi economica.
Secondo me non puoi essere un conservatore sulle tasse e non esserlo sui temi sociali, sui valori. Una gran parte della spesa dello stato serve a rimediare a disfunzioni della società perché la nostra cultura è in difficoltà, la famiglia sta crollando”.

Tema dominante in politica estera.
Ci sono preoccupazioni in tutto il mondo, ma la nostra priorità deve essere la protezione del popolo americano nel nostro territorio. Difesa missilistica e modernità dell’apparato militare sono la chiave. Dobbiamo avere dei buoni sistemi di difesa contro attacchi missilistici e altre forme moderne di attacchi”.

Qualcuno ha suggerito che, se repubblicani come DeMint fossero stati meno testardi nel sostenere alcuni candidati del Tea Party che poi hanno perso, il GOP avrebbe potuto ottenere risultati ancora migliori nel 2010, ma ci sono pochi dubbi sul fatto che il Tea Party abbia dato un’enorme spinta alla campagna del partito e, se l’onda continuer, DeMint sarà in buona posizione per cavalcarla nel 2012.

Probabilmente all’inizio del 2010 DeMint non pensava di correre per la presidenza, ma se guardi come è decollato il Tea Party in America, non puoi che pensare che si sentirebbe un pazzo a non provarci” commenta David Yepsen.

So esattamente quello che c’è da fare e penso di avere le qualità per farlo, ma al prossimo Presidente toccherà un lavoro doloroso, dovrà combattere contro la burocrazia, tagliare la spesa,  alleggerire lo stato, prendere decisioni impopolari. Spero che non tocchi a me, che ci sia qualcun altro ad alzarsi e a dire la verità”.

My Two Cents for free: E’ uno dei fautori della ripresa di coscienza del GOP sui temi economici: contenimento della spesa, lotta alle tasse e guerra ai pork. Funziona benissimo con l’anima “dura e pura” dei repubblicani, ma i risultati del mid term hanno dimostrato che laddove si vince al centro questo approccio rischia di non pagare. Non lo vedo inoltre misurarsi con la retorica obamiana sul vasto range di temi su cui si gioca un’elezione presidenziale. Parlando di nomination però non va sottovalutato perché i suoi sostenitori hanno una notevole capacità di mobilitazione e questo può pesare ai nastri di partenza delle primarie, in Iowa e New Hampshire.

Next Stop: L'ufficio di un editore o uno studio televisivo dove si parli fuori dai denti, come piace fare all'ex Speaker della Camera Newt Gingrich.

Fermate precedenti:
1 - Mitch Daniels
2 - Haley Barbour
3 - Mitt Romney
4 - Sarah Palin
5 - Mike Pence
6 - Mike Huckabee
7 - Tim Pawlenty

Magistratocrazia



In Italia non comanda nessuno”. Capita di dirlo in un paese come il nostro che ha il vizio di vedere un dittatore dietro ogni angolo, con la conseguenza che il potere decisionale, così come la responsabilità, è polverizzato, disperso in centinaia e migliaia di rivoli, nessuno dei quali è in grado di incidere sulla direzione in cui si muove il paese.
La frase è certamente vera per la politica che, chiunque vinca le elezioni, difficilmente riesce a spingere la sua azione oltre i confini di un continuo tira e molla con una miriade di sigle, associazioni, confederazioni, tutte con qualche santo in paradiso. E, vista la necessità di non scontentare nessuno, le decisioni si riducono quasi sempre compromessi al masSimo ribasso che, quando va bene, spostano qualche zero-virgola da una colonna a quella adiacente. 

Ma c’è una categoria, quella togata, che vive in una dimensione tutta sua e, bisogna ammetterlo, detta l’agenda del paese con molta più incisività di qualunque governo del passato e del presente.
Prendete quello che sta accadendo in questi giorni: fino a qualche settimana fa discutevamo di università, di sviluppo, di riforme. Oggi qualche titoletto sparso qua e là ci ricorda che in queste ore si decide la sorte di un provvedimento “qualificante” come il federalismo, ma i giornali, le trasmissioni televisive, i tg, parlano di tutt’altro.
Il cambio di agenda l’ha deciso un gruppetto di magistrati di una nota Procura della Repubblica che prima ha fatto ricorso chiedendo ad altri magistrati (quelli della Corte Costituzionale) di togliere di mezzo la legge sul legittimo impedimento e, appena ottenuta la luce verde, ha inondato il paese con non meno di 400 pagine di intercettazioni sulla vita privata del Premier di nessuna rilevanza penale, ma che lasciano l’imbarazzo della scelta anche al più imbranato dei titolisti.
Il mondo dei media però, si sa, divora tutto in fretta e, malgrado la considerevole mole del tomo, negli ultimi giorni gli spunti iniziavano a scarseggiare. E così ieri sono arrivate altre 227 pagine, tanto per garantirci di essere coperti almeno per il week end.
E c’è da scommettere che il flusso non si fermerà, seppellendo il dibattito politico sotto una fanghiglia di chiacchiere private buone solo per sentenze da bar.

Domanda: Nella disgraziata ipotesi in cui anche questa inchiesta bomba-atomica si riveli una miccetta spenta, qualcuno pagherà per aver accusato senza prove, destabilizzato gli equilibri del paese, messo alla berlina indistintamente imputati, persone informate sui fatti e passanti e speso una valanga di soldi?
Risposta: No. E’ l’unica certezza che abbiamo nella giungla di ipotesi in cui ci muoviamo, perché la classe togata gode di un’impunità quasi assoluta. E’ l’unica che si autogiudica e dimostra di essere particolarmente comprensiva con se stessa: su circa 1500 denunce che ogni anno investono la categoria oltre il 90% non arrivano neanche sul tavolo del CSM. Quelle poche che passano la selezione vengono ulteriormente decimate grazie ad una media di proscioglimenti che si aggira intorno all’80%, il resto si divide tra ammonizioni e censure, che portano conseguenze zero all’interessato. Su 1000 casi che arrivano a Palazzo dei Marescialli (nell'arco di 7-8 anni) in media solamente uno o due costano il posto a qualcuno. Numeri che fanno impallidire anche quelli dei bocciati agli esami di maturità. (*)

Il CSM, organo di autogoverno della magistratura, non è che un prolungamento della mano dall’Associazione Nazionale Magistrati, potentissimo sindacato che può contare sul tesseramento di quasi il 95% dei membri della categoria (caso probabilmente unico nel mondo occidentale).
L’ANM ha uno statuto che prevede sanzioni per i magistrati che (art.9) secondo il parere dei Probiviri, con il loro comportamento recano discredito all’Ordine Giudiziario.
E meno male. I magistrati devono pur sempre dare l’esempio, no?
Aspettate ad esultare, perché (art.11) “Il parere del Collegio dei Probiviri vincola la decisione del Comitato Direttivo Centrale solo nel senso favorevole al socio sottoposto al procedimento”. Cioè: Il parere è vincolante solo se è assolutorio, altrimenti si rimanda tutto a data e luogo da destinarsi. Altro che casta. La tanto vituperata classe politica al confronto è fatta da ingenue verginelle con un più che spiccato senso del pudore.

A coprire ulteriormente le spalle ai togati ci ha pensato anche il legislatore. La Legge Vassalli, che in teoria avrebbe dovuto recepire il risultato del referendum del 1987 sulla responsabilità civile dei magistrati, ne ha in realtà completamente disinnescato gli effetti con paio di righe (art.2), scritte sotto dettatura della categoria: “nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove” vale a dire che qualunque cantonata presa nel corso delle indagini e del dibattimento rimane impunita per legge, salvo che si dimostri il dolo, che non si dimostra mai. Amen.

Ma l’appetito vien mangiando: perché limitarsi a condizionare le scelte e l’agenda di una  politica ormai prona, o a decapitarne selettivamente le classi dirigenti, quando si può entrare negli ovattati palazzi in prima persona? E così negli ultimi anni assistiamo al fenomeno di magistrati che prima si guadagnano la notorietà indagando sulla politica, per poi farsi mettere in lista e sfidare sul terreno del consenso quegli stessi politici che erano stati oggetto delle loro indagini.
Così il cerchio della magistratocrazia si chiude. Quanto più la politica continuerà a farsi commissariare, tanto più questo cerchio assomiglierà ad un cappio.

In Italia negli ultimi anni i giudici hanno goduto di un grado di potere unico nel mondo occidentale. Un potere che non fa bene alla democraziascriveva, nel 2008, il Financial Times, che così concludeva  "una legge  sull'immunità renderebbe la politica italiana meno litigiosa e più democratica. Il fatto che Berlusconi potrebbe schivare qualche processo grazie ad essa è il solo motivo per non farla, ma non è sufficiente". Chissà se chi si riempie quotidianamente la bocca del verbo della stampa estera si ricorda anche questa di citazione.


(*) Dati tratti da "Magistrati L'Ultracasta" di Stefano Livadiotti.

mercoledì 26 gennaio 2011

Due Escort, Due Misure


Premessa: chi scrive si è interessato pochissimo al caso Montecarlo e ancora meno a quello che certe escort sono andate a dire in giro per le redazioni. Per carità, se ci sono dei reati è giusto che vengano perseguiti, ma è la stessa cosa che si può dire per migliaia di altri casi che avvengono tutti i giorni, né più, né meno.
Ma nemmeno ad un osservatore distratto e scarsamente interessato possono sfuggire certe anomalie.

L’altra sera ad Annozero abbiamo assistito al messaggio alla nazione di tale Nadia Macrì, che aveva una storia vagamente incredibile da raccontare e più o meno nessun riscontro da offrire, ma ha potuto farlo in prima serata, su una rete pubblica, usando il megafono che Santoro le ha subito messo a disposizione. D’altronde quando c’è la possibilità di sparare un po’ di fango a buon mercato addosso a Berlusconi non è il caso di fare gli schizzinosi.
Che la ragazza fosse poco attendibile l’avevamo capito da un pezzo, ce lo aveva già detto la madre, e lo avevano confermato amici e conoscenti.

E non c’era nemmeno bisogno di andare a sentire l’opinione di terzi perché lei stessa ci aveva dato un saggio della sua affidabilità non più tardi di pochi mesi fa, quando descrisse con dovizia di particolari fatti e circostanze di incontri a base di sesso e droga (tanto per non farsi mancare niente) con il Premier, indicando date in cui però, ma tu guarda a volte la sfortuna, Berlusconi si faceva fotografare in varie cancellerie d'Europa e quindi difficilmente poteva stare a spassarsela con la Macrì, a meno che la ragazza non facesse parte della delegazione diplomatica.
Malgrado questo la TV di stato l’ha elevata al rango di oracolo: tutti zitti, parla Nadia. E la Procura di Milano ne ha fatto un specie di superteste, arrivando addirittura ad interrogarla in un luogo segreto, come se la ragazza avesse chissà quali verità da raccontare e corresse chissà quali rischi. Per giorni non si è parlato di altro
Adesso sappiamo che la superteste era una superbufalaNon ho mai detto di aver incontrato Ruby”, ci ha tenuto a precisare l’altroieri. Chiediamo scusa, eppure ci era sembrato…
Detto questo la ragazza se ne torna tranquilla a casa e tanti saluti, alla prossima sparata.

Tutto normale?
Per capirlo vediamo quello che è successo a tale Lucia Rizzo, in arte Rachele. Vi dice niente il nome? Probabilmente no. La signorina in questione è una “collega” della Macrì, una escort di Reggio Emilia, e come la Macrì ha offerto ai media una torbida storia di sesso a pagamento, probabilmente campata per aria, con un’alta carica istituzionale, ma le somiglianze si fermano qui, perché stranamente nel suo caso non abbiamo avuto interviste fiume sui giornali o ospitate in prima serata, niente, pubblicità zero.
E non solo non se l’è filata nessuno, ma è pure finita nel registro degli indagati per diffamazione e tentata estorsione.

Per i meno attenti: l’alta carica istituzionale di cui sopra è il Presidente della Camera Gianfranco Fini, da qualche tempo nemico giurato del Premier. E la Procura che ha messo la ragazza sotto indagine è quella di Roma, la stessa che - in un paese in cui gli atti delle inchieste vengono spediti a destra e a manca, come fossero bozze di romanzi in cerca di editore - ha gestito con stupefacente riservatezza e delicatezza l’inchiesta sul caso Montecarlo, che vede coinvolto lo stesso Fini.

A questo punto l’osservatore scarsamente interessato capisce che c’è qualcosa che non va, qualcosa di probabilmente un po’ più serio di una mitomane a caccia di copertine o di un immobile svenduto, e conclude che probabilmente vale la pena essere un po’ meno distratti.

martedì 25 gennaio 2011

Back in The Picture



Houston, abbiamo un problema”, la lunga erosione del consenso di Obama ha subito una brusca inversione di tendenza nelle ultime settimane ponendo fine all’illusione di una elezione 2012 tutta in discesa per i repubblicani.

Nei giorni precedenti l’elezione di mid term, meno di tre mesi fa, lo scenario per il GOP era di quelli da far venire l'acquolina in bocca: un sondaggio CNN (non certo un media di destra) dava Obama perdente, nel voto popolare, sia nei confronti di Mike Huckabee (52 a 44), sia contro Mitt Romney (50 a 45). Addirittura il presidente veniva dato in condizione di doversela giocare, più o meno alla pari, con l’ex speaker repubblicano Newt Gingrich (che conosceremo meglio in una delle prossime fermate della Road to Nomination).

Oggi lo scenario è radicalmente diverso: agli americani è piaciuto il profilo tenuto dal Presidente in occasione della strage di Tucson, ma non è tutto qui, anche i compromessi raggiunti con i repubblicani durante la fase dell’anatra zoppa (cioè con il congresso in scadenza) hanno fatto riguadagnare ad Obama consensi al “centro”.
Tanto che il sondaggista democratico Peter D. Hart si spinge a dire chele ultime sei settimane sono state le migliori che il Presidente abbia avuto in questi primi due anni di mandato”.

I sondaggi danno i numeri di questa inversione di tendenza:
Il job approval di Obama è stato per mesi fermo intorno al 45%, con uno spread negativo (cioè la differenza tra chi approva e chi disapprova la politica della Casa Bianca) oscillante tra il 2 e il 4%.
Dall’inizio dell’anno non c’è stato invece un solo sondaggio che abbia dato un “segno meno” al Presidente. Si va dal +3 di Fox News (47-44) al +12 di NBC/Wall Street Journal (53 a 41). La media RCP del suo livello di approvazione è schizzata dal 45% di dicembre al 51% di oggi con un spread che segna adesso un deciso segno più (+8.2%).

Sempre secondo il sondaggio CBS/WSJ  se si votasse oggi Obama prevarrebbe su Huckabee (51 a 41), su Gingrich (54 a 35). E anche la rilevazione precedente vedeva il Presidente avanti di 7 punti su Romney e addirittura di 22 punti sulla Palin.
C’è da dire che il sondaggio di CBS/WSJ pare decisamente il più sbilanciato a favore di Obama, e i numeri reali probabilmente non sono questi, ma è indubbio che il vento di novembre sia cambiato.

Per quanto riguarda il voto ai partiti il GOP continua, secondo Rasmussen, a mantenere un buon vantaggio sui democratici (44 a 39), ma il dato è in netto calo rispetto al +12 di tre settimane fa, al +11 di due settimane fa e al +8 della settimana scorsa.

Obama continua ad avere un consenso nettamente superiore a quello del suo partito e questa non è una bella notizia in prospettiva 2012. Al momento i repubblicani messi meglio per la nomination sono Huckabee e Romney, che di tanto in tanto riescono a scavalcare Obama nel gradimento degli americani, ma solo nei momenti in cui il Presidente se la passa davvero male.
Se il GOP vorrà riprendersi la Casa Bianca non potrà contare solo sui demeriti altrui, avrà bisogno di un candidato che sappia andarsi a prendere i battleground states uno per uno. Prepariamoci comunque a due anni sulle montagne russe.

Invito a Coalizione




'Se nasce un altro governo, i responsabili non sarebbero solo quelli che si sono costituiti in gruppo. Ci saremmo anche noi’. Parola di Casini. Un vero e proprio invito a coalizione.
Il terzo polo è pronto ad entrare in maggioranza, e a dar vita ad un esecutivo di responsabilità per il bene dell’Italia. Ad un’unica condizione: che Berlusconi sparisca dalla foto di gruppo di Palazzo Chigi.
D’altronde “Dentro al Pdl 'ci sono personalita' autorevoli che potrebbero guidare un governo 'senza', ma non 'contro', Berlusconi”.
Tutto ad un tratto il Popolo delle Libertà è diventato un partito di statisti e andarci al governo insieme non è peccato, anzi, si fa il bene del paese.

Il Cav. però deve togliere il disturbo, ma non c’entra l’antiberlusconismo, e nemmeno il calcolo politico, la questione è un’altra, è che “non possiamo permetterci un premier sotto ricatto”.
Sembra vero. Ma come mai questa proposta arriva proprio adesso? Un mese fa il premier non era sotto ricatto (a proposito: sotto ricatto da parte di chi?), ma l’offerta di entrare in maggioranza venne rispedita al mittente.
E appena quindici giorni fa, il 10 gennaio, Casini aveva detto che anche solo l’ipotesi di un appoggio esterno era roba da vecchia politica: “ognuno rimanga dove lo hanno collocato gli elettori” (video sopra per i cultori del genere). Parole di rara chiarezza.

Oggi all’improvviso tutto cambia. Cosa è successo? E’ successo che i terzopolisti intravedono di nuovo la possibilità di liberarsi dell’asso pigliatutto, di far uscire di scena la figura politica che da 17 anni li relega al ruolo di attori non protagonisti.
Perché si sa, una volta tolto di mezzo Berlusconi il centrodestra italiano diventerà un gigantesco paese dei balocchi, con milioni di potenziali elettori improvvisamente alla ricerca di un leader. E in assenza di uno vero, potrebbero anche accontentarsi di qualche imitazione riuscita così così. Un sogno ad occhi aperti per politici rimasti “giovani” fino all’età dei capelli bianchi, a cui mancano i voti, ma non le ambizioni.

Parliamoci chiaro: l’offerta di Casini è una trappola, e come tale l’unica risposta che merita è un educato “No, grazie”, omettendo tutt’al più l’ultima parte del messaggio.
Il movente non è la responsabilità, e il fine non è la governabilità.
L’obiettivo è un altro: è sfruttare il potenziale disorientamento prodotto  dall’effetto Ruby (o meglio, dall’effetto Boccassini) per spingere un PdL in stato confusionale a suicidarci, accettando di buttare a mare il motivo principale per cui la gente lo vota (cioè il suo leader), prima che possa fare mente locale e rendersi conto che questo vorrebbe dire consegnarsi mani e piedi  proprio a Casini, che non aspetta altro per fagocitare il partito di maggioranza relativa in nome della nobile causa dell’unità dei moderati. Il tutto riprendendo confidenza con le stanze dei bottoni di Palazzo Chigi, che non fa mai male, ed accettando di dividerle perfino con l’odiata Lega (altrimenti i numeri per il famoso “governo forte” non ci sarebbero) che fino a ieri era un pericolo da bloccare, ma pur di far fuori Berlusconi ci si allea anche col diavolo.  

Per andare al governo c'è chi si vende l'anima e anche altro” ha detto ieri autorevolmente Fini, che di Casini è compagno di cordata. Se lo dice lui deve essere vero, di vendite se ne intende, specie se a buon mercato.

lunedì 24 gennaio 2011

Road to Nomination: 7 - Tim Pawlenty



Continua la Road to Nomination di questo blog. Grazie ai minispecial di Fox News andiamo a conoscere meglio 12 potenziali candidati alla nomination repubblicana per l'elezione presidenziale del 2012. Oggi incontriamo un uomo tranquillo: Tim Pawlenty.

Molti americani non avevano mai sentito il nome di  Tim Pawlenty prima del 2008, quando il popolare governatore del Minnesota arrivò vicino ad essere scelto da McCain per completare il ticket presidenziale.
Alla fine McCain scelse Sarah Palin. Pawlenti ci restò male?
No, io rispetto e ammiro davvero John McCain, sarebbe stato un onore essere scelto, ma non sono il tipo di persona che si guarda indietro con questo genere di rimpianti”.

Quando Pawlenty venne eletto governatore del Minnesota lo stato aveva un deficit di più di 4 miliardi di dollari, quasi il 20% del suo prodotto interno.
I democratici avevano in progetto di recuperare denaro aumentando le tasse sul reddito, sui carburanti e sull’alcol, ma Pawlenty ha preso una strada diversa, tagliando la spesa dello stato di 3 miliardi.
Vorrei poter dire che fu una scelta bipartisan, che convinsi tutta l’assemblea e che tutto si svolse in modo tranquillo. Per alcune cose fu così, ma ci furono anche momenti molto duri, andammo anche per tribunali. Ho tagliato personalmente il bilancio di 3 miliardi”.

La maggior parte dei tagli riguardarono i trasporti, lo stato sociale e altri servizi.
Così facendo Pawlenty si è meritato, insieme a soli altri 3 governatori dell’intera nazione, la definizione di “amministratore parsimonioso” da parte del  Cato Institute. Il Washington Post lo vede invece in ottima posizione per rimodellare l’immagine del GOP.

Pawlenty sta facendo tutto quello che serve per preparare una campagna presidenziale, si vede spesso in Iowa e New Hampshire, ovvero gli stati che daranno il via alle primarie. Ha già deciso di candidarsi?
Non ho ancora deciso, è una possibilità a cui sono aperto, ma non c’è niente di deciso”.

In agosto Pawlenty e sua moglie hanno partecipato alla fiera dello stato dell’Iowa, punto di passaggio obbligato di ogni candidato presidenziale.
Allo stesso tempo Pawlenty ha costituito una fitta rete di relazioni facendo campagna per molti deputati repubblicani e mettendo su tre comitati che hanno contribuito a finanziare ben 160 candidati nelle ultime elezioni di mid term. Così facendo si è guadagnato il favore di 160 potenziali sostenitori che potrebbero tornargli utili se decidesse di correre”

Quanto è cambiato l’atteggiamento degli elettori americani rispetto al 2008?
Non c’è dubbio che sia cambiato. Nel 2008 gli americano hanno votato per il cambiamento puro e semplice. Adesso penso che abbiano visto che per molte cose abbiamo bisogno di un diverso tipo di leadership. La gente ha dimostrato di pensare che Obama e la Pelosi abbiano esagerato”.

Il più importante tema di politica estera.
Non c’è dubbio che gli Stati Uniti debbano fronteggiare delle minacce di sicurezza nazionale.
Sono stato in Iraq cinque volte, in Afghanistan tre, sono stato in Medio Oriente, per tre volte in Cina, e ho condotto molte altre missioni finalizzate al commercio in giro per il mondo, ma secondo me il problema numero uno è fare il possibile perché l’America sia sicura e rispettata nel mondo. Il Presidente Obama a volte sembra fare confusione tra questo obiettivo strategico ed il suo desiderio di essere popolare”.

Da dove inizierebbe a tagliare il bilancio federale?
Penso che la riforma sanitaria sia una delle peggiori leggi che siano mai state fatte nella storia moderna dell’America. Farà aumentare i costi della sanità, non li diminuirà, e gonfierà il deficit anziché fare il contrario”.

Pawlenty viene a volte paragonato a Ronald Reagan per la sua capacità di governare da conservatore in uno stato liberal, ma molti analisti notano che a mancargli è il carisma di Reagan, la sua capacità di catturare l’attenzione del pubblico. E’ preparato e competente, ma tocca poco le corde emotive.
Bhe è una qualità che certamente non manca all’attuale Presidente. Ci sono momenti nella storia in cui l’intrattenimento è più importante, altri in cui a prevalere sono la sostanza e i risultati e in questo momento io posso mettere a confronto i miei risultati con quelli di ogni altro governatore del paese.”

Per David Yepsen non è necessariamente un male che Pawlenty sia un “candidato alla vaniglia” (per la sua moderatezza e competenza) “la vaniglia è un gusto di gelato molto popolare in America. Quando si tratta di eleggere un Presidente la gente può emozionarsi per questo o quel candidato, ma se si parla di chi vuoi vedere seduto nello Studio Ovale, con la mano sul bottone rosso, i candidati competenti e controllati tendono a piacere”.

Se nel 2012 la gente preferirà la competenza al carisma Pawlenty si farà trovare presente.


My Two Cents for free: Pawlenty è un moderato, e potrebbe funzionare se avesse al suo fianco un vice capace di mobilitare la base più “vivace”.
E’ un governatore e questo gli dà un profilo di uomo di governo molto più di quanto possa fare lo status di senatore.
Malgrado questo Pawlenty al momento ha una notorietà insufficiente per competere sulla “distanza” dei 50 stati. Ci sta lavorando, ha anche scritto un libro, insomma vuol provarci sul serio. La macchina dei finanziamenti è già avviata, vedremo in Iowa se e quanto sarà riuscito a convincere, ma deve farne di strada se vuol pensare di andare a lavorare nell’attuale ufficio di Obama.


Next Stop: Washington, dove faremo la conoscenza del senatore del South Carolina Jim DeMint

Fermate precedenti:
1 - Mitch Daniels
2 - Haley Barbour
3 - Mitt Romney
4 - Sarah Palin
5 - Mike Pence
6 - Mike Huckabee

Qui non è Hollywood


Enzo Ferrari li chiamava “gli ingegneri del lunedi”, quelli che il giorno dopo sono bravissimi a dirti qual era la strategia giusta per vincere. Facile prendere la parola e cose fatte. Le gare si vincono e si perdono la domenica, il lunedì è per chi la storia la racconta, non per chi la fa.

Berlusconi in questo paese sbaraglia il campo e gli avversari da 17 anni perché ha il fegato e, a volte, l’incoscienza di rompere gli schemi e di metterci sempre la faccia.
Dalla nascita di Forza Italia alla svolta del predellino, passando per il contratto con gli italiani e la sfuriata di Vicenza, fino ad arrivare alla manifestazione di San Giovanni, e al voto del 14 Dicembre, il giudizio degli opinionisti del “lunedì” è unanime: il Cav. le ha vinte, e quindi azzeccate, tutte.
Ma quanti sorrisetti compassionevoli si contavano a partita in corso? Almeno quante sono oggi le sopracciglia alzate per i toni del contrattacco sul caso Ruby. Vedremo chi avrà ragione. Finora però, ricordiamocelo, quelli col sopracciglio alzato li abbiamo sempre ritrovati sotto al podio ad applaudire vittorie in cui loro erano i primi a non credere.

Qualcuno mi ha risposto che queste vittorie sono state solo di Berlusconi, non di chi l’ha votato. Siamo sicuri? Se Berlusconi nel 1994 non avesse scompaginato le carte a chi già preparava la lista dei ministri dell’Occhetto I° per noi non avrebbe fatto differenza?  L’avrebbe fatta eccome.

La storia del centrodestra italiano non è stata quella che sognavamo, avevamo in mente le rivoluzioni di Ronald Reagan e di Margaret Thatcher, ma i leader e i movimenti politici sono figli dei paesi che li esprimono, e l’Italia non è l’America e nemmeno la Gran Bretagna.
L’Italia però oggi è un paese in cui l’età pensionabile si adegua in automatico all'incremento dell’aspettativa di vita, in cui non si fanno quadrare i bilanci con il solito ritocco al rialzo di tasse e tassette, in cui le manovre si votano e gli accordi si firmano anche se la CGIL abbandona il tavolo, in cui si iniziano a distribuire i primi fondi alla università in base al merito, in cui si torna ad investire sul nucleare, in cui si sta per mettere nero su bianco il principio del costo standard al posto della spesa storica.
Si poteva fare di più e di meglio, ma se 17 anni fa le cose fossero andate in un altro modo, se Berlusconi avesse fatto la scelta facile di mandare un bel telegramma ad Occhetto per augurargli buona fortuna (e allora, state sicuri, certe procure si sarebbero occupate di “altro” e di “altri”) oggi avremmo ben altro di cui lamentarci.

Manca la grande riforma fiscale, è vero, ma il presupposto per arrivarci è imporre allo stato una robusta cura dimagrante. Non proprio facile in un paese in cui il lavoro statale è stato per generazioni il mezzo per sistemarsi. Non siamo negli USA, dove due cittadini su tre preferiscono avere meno servizi, ma tasse più basse, per poter essere più competitivi sul mercato.
Che ci piaccia o no il nostro background culturale è tutto un altro film. In Italia più che puntare a vincere si bada a non perdere. E un pareggio non scontenta mai fino in fondo nessuno.

L’Italia è il paese del posto fisso, del “tutto assicurato”, non è il paese delle opportunità, ma quello delle garanzie, delle tutele, dei sussidi. Le garanzie le dà lo stato, il loro prezzo si chiama spesa pubblica e quando la tagli devi prepararti a fare i conti con piazze piene di gente arrabbiata perché tra le garanzie finite sotto le forbici c’erano anche le loro.
Ricordiamoci il fuoco di sbarramento piovuto addosso a Brunetta e alla Gelmini. Se nei prossimi anni la macchina dello stato si alleggerirà di qualche centinaio di migliaia di posti sarà  perché, mentre i sindacati urlavano nei megafoni e qualcuno saliva sui tetti, questo governo non si è fermato. Troppo poco? Può darsi, ma, in un paese in cui la pubblica amministrazione è sempre stata un ammortizzatore sociale, anche la semplice affermazione di un principio che va in controtendenza è un cambio di prospettiva. Se qualcuno un giorno potrà fare questa benedetta riforma fiscale lo dovrà anche ai semi piantati in questi anni.

Quello di oggi non è il centrodestra dei nostri sogni. Fantasticavamo di Reagan e ci siamo ritrovati Berlusconi, che non è la stessa cosa, ma saremmo davvero di memoria corta se avessimo bisogno qualche altro anno di governo Prodi (o similari) per ricordarci che questo centrodestra, con tutti i suoi difetti e a dispetto dei tanti avvoltoi che gli volteggiano intorno, è ancora il meglio che abbiamo da scegliere in Italia, che non è l’America. Qui non è Hollywood.