ADNKronos Politica


mercoledì 31 ottobre 2012

Espandere la Mappa



Sei giorni all’ora della verità e apparentemente le carte non sono mai state così confuse.
Il devastante passaggio dell’uragano Sandy sulla costa ovest non ha lasciato senza luce solo qualche decina di milioni di persone, ma ha mandato in black out anche i sondaggi che da un paio di giorni ormai escono con il contagocce (l'ultimo Rasmussen di un'ora fa dà Romney avanti 49 a 47).
Con quaranta americani morti sotto le macerie ovviamente né i candidati né i loro staff parlano delle possibili ripercussioni della catastrofe sulla corsa presidenziale, ma state certi che, discorsi ufficiali a parte, ci pensano.
La verità è che, se ripercussioni ci saranno, è difficile prevedere in che direzione: c’è chi dice che aiuteranno Obama dandogli l’occasione di mostrarsi presidenziale e “al comando” della nazione, altri invece fanno notare che in alcuni stati della costa est il passaggio di Sandy ha bloccato, o quantomeno rallentato, il processo di voto in anticipo (early voting).

Perché in America l’election day è anche oggi, come lo era ieri o due settimane fa. In molti stati è già da tempo possibile recarsi al seggio elettorale e si prevede che all’alba del 6 Novembre non meno del 30% del totale dei partecioanti avrà già votato in anticipo.
Storicamente l’early voting è un territorio di caccia democratico: nel 2008 secondo Gallup Obama staccò McCain di ben 15 punti tra i votanti in anticipo (55 a 40), ed è quindi naturale assumere che ogni intoppo o ritardo nel meccanismo dell’early voting impatti più pesantemente sul campo democratico che in quello repubblicano. O almeno così ci si aspetta che sia negli stati in bilico come l’Ohio, mentre globalmente la dinamica quest’anno potrebbe essere sostanzialmente diversa da quella di quattro anni fa.
Sempre Gallup infatti prevede che a livello nazionale il processo di voto anticipato potrebbe quest’anno chiudersi in pareggio (49 a 49) dando Romney addirittura in vantaggio (52 a 46) tra quelli che avevano già votato il 28 ottobre.
Numeri quasi troppo belli per essere veri, quindi da prendere con le molle, ma che se fossero confermati sarebbero una gran bella notizia per il candidato repubblicano.

I dati reali disponibili sull’early voting sono frammentari e poco dettagliati, tanto che entrambi i campi possono utilizzarli per cantare vittoria: i democratici sostengono di essere in vantaggio negli stati che contano, i repubblicani rispondono che quel vantaggio è ridotto all’osso rispetto a quattro anni fa. Se questo sarà o meno sufficiente a cambiare il risultato finale degli stati in questione lo vedremo.

Nel frattempo la strategia di Romney in questa ultima settimana di campagna elettorale è quella di espandere la mappa cercando di mettere in gioco stati considerati solidamente democratici.
Così si spiega la decisione della macchina elettorale repubblicana di acquistare spazi pubblicitari in mercati “vergini” come la Pennsylvania e il Minnesota.
La Pennsylvania manda in bianco i repubblicani ininterrottamente dal 1992, George W. Bush provò seriamente a portarla nella sua colonnina sia nel 2000 che nel 2004 senza mai riuscirci. Per ritrovare un Minnesota colorato di rosso invece non basta nemmeno risalire a Reagan, bisogna arrivare ai tempi della valanga di Nixon (1972). Improbabile che Romney riesca davvero a spuntarla da quelle parti ma il fatto stesso che ci provi è comunque un segnale.

In casa democratica si cerca di paragonare la mossa di Romney a quella disperata di McCain 2008 che  vedendosi ormai sconfitto su tutti i fronti, tentò la carta a sorpresa facendosi vedere proprio in Pennsylvania nelle ultime ore prima dell’election day.
La differenza non sta tanto nell’azione, quanto nella reazione: giusto in queste ore la macchina elettorale obamiana ha acquistato qualche milione di dollari in spazi pubblicitari proprio in Pennsylvania, inserendo il Keystone State nel programma di viaggio di Joe Biden (ci farà tappa domani), mentre in Minnesota è previsto addirittura l’arrivo di Bill Clinton. Mosse di copertura in un certo senso “obbligate”, ma anche il segno che quegli stati non vengono più considerati del tutto sicuri.

A ridosso del 6 Novembre e con le bocce tenute forzatamente ferme per giorni la cosa più preziosa per entrambe le campagne è il tempo, ogni minuto passato in Pennsylvania e Minnesota è un minuto in meno da spendere dove conta davvero e nessuno lo fa senza motivo. Ma, indipendentemente dalle reali possibilità di Romney di essere competitivo in questi Blue States, indurre l’avversario a dirottare tempo, soldi e energie qua e là sulla mappa elettorale è un’altra delle strategie per provare a vincere quella gigantesca partita a scacchi che sono le presidenziali americane.

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martedì 30 ottobre 2012

Abuso di Minore



Che ci crediate o no un gruppo a supporto di Obama ha veramente mandato in onda questo spot in cui ipotetici bambini di un futuro in cui Romney è alla Casa Bianca incolpano i loro genitori per averlo votato e aver fatto diventare l'America un posto dove, tra le altre cose, quanto segue è la normalità: 

"Le persone malate semplicemente muoiono".
"Guerre senza fine sulle rive straniere".
"Non c'è bisogno di migliorare le nostre scuole"
"Non abbiamo ucciso tutti gli orsi polari, ma ci abbiamo provato".
"L'atmosfera frigge".
"Trova un parco che sia ancora aperto e respira l'aria avvelenata".
"Siamo i bambini del futuro, è successo qualcosa al nostro paese. Mamma e Papà è colpa vostra!".

Se Romney vincerà le elezioni e nei prossimi anni vi capiterà di fare un giro negli USA non partite senza mascherine, tute antiradiazioni e una buona provvista di armi per difendervi. E non portatevi dietro orsi o altre specie protette, gli spareranno a vista.

Ecco il testo integrale:

Imagine an America
Where strip mines are fun and free
Where gays can be fixed
And sick people just die
And oil fills the sea
We don’t have to pay for freeways!
Our schools are good enough
Give us endless wars
On foreign shores
And lots of Chinese stuff
We’re the children of the future
American through and through
But something happened to our country
And we’re kinda blaming you
We haven’t killed all the polar bears
But it’s not for lack of trying
Big Bird is sacked
The Earth is cracked
And the atmosphere is frying
Congress went home early
They did their best we know
You can’t cut spending
With elections pending
Unless it’s welfare dough
We’re the children of the future
American through and through
But something happened to our country
And we’re kinda blaming you
Find a park that is still open
And take a breath of poison air
They foreclosed your place
To build a weapon in space
But you can write off your au pair
It’s a little awkward to tell you
But you left us holding the bag
When we look around
The place is all dumbed down
And the long term’s kind of a drag
We’re the children of the future
American through and through
But something happened to our country
And yeah, we’re blaming you
You did your best
You failed the test
Mom and Dad
We’re blaming you!

lunedì 29 ottobre 2012

Il Piano B



Un’elezione si può vincere o perdere in tanti modi, ma negli USA la mappa elettorale limita il numero delle combinazione, sempre che si voglia restare nel campo del possibile.
Romney da ormai una settimana non scende sotto quota 50% in entrambi i principali tracking nazionali,  mentre Obama non supera il 48% neanche nei sondaggi che lo danno in testa e più frequentemente oscilla tra il 46% e il 47%.
Da queste parti è stato già detto che Romney potrebbe perdere la Casa Bianca pur vincendo il voto popolare se il suo vantaggio fosse inferiore a un punto e mezzo. I dati del pollster più rispettabili sembrano però attribuirgli di un vantaggio maggiore, oscillante tra 2 e 4 punti.
Aggiungiamoci che gli indecisi dell’ultim’ora tendono storicamente a schierarsi più con lo sfidante che con l’incumbent e, a meno della classica october surprise, non possiamo che concludere che la tendenza sembrerebbe abbastanza consolidata.

Dando per buoni questi sondaggi Romney in teoria dovrebbe vincere senza troppi patemi i quattro swing states che solitamente danno ai repubblicani un risultato migliore (o comunque non peggiore) della media nazionale: North Carolina, Virginia, Florida e Ohio. 266 voti elettorali dei 270 richiesti sarebbero già sistemati con buone possibilità di aggiudicarsi almeno uno tra Colorado, New Hampshire e Iowa (in ordine di probabilità) e mettere la firma sul contratto da inquilino della Casa Bianca per i prossimi quattro anni.
E’ così che un repubblicano in vantaggio nel voto popolare diventa Presidente degli USA.

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Secondo alcuni però quest’anno ci aspettano delle sorprese, a cominciare dal swing states per antonomasia, quello che dal 1964 ha sempre scelto il cavallo vincente: L’Ohio.
Un Romney davanti nel voto popolare non dovrebbe avere difficoltà a portarlo a casa, ma degli ultimi sedici sondaggi condotti  nel Buckeye State solo quattro lo danno alla pari di Obama mentre gli altri vedono il presidente in vantaggio, anche se quasi sempre con distacchi all’interno del margine d’errore.

In passato non è che i sondaggi statali (o le loro medie) abbiano brillato per accuratezza, nel 2008 hanno mancato il risultato con margini tra 2 e 6 punti anche in stati considerati potenzialmente in bilico e quindi abbondantemente “coperti” (2 punti in Ohio2.5 in Indiana3 in Pennsylvania3.5 in Colorado5 in Arizona e 6 in Nevada e in Iowa). Con numeri simili è difficile dare ai sondaggi statali un peso maggiore rispetto a quello di tendenze consolidate negli anni, anzi nei decenni, ma per i prossimi dieci minuti facciamo finta di crederci.
Del resto se davvero l’Ohio avesse deciso di concedersi un giro da blue state  non sarebbe difficile trovare delle spiegazioni: in quello stato più di un posto di lavoro su dieci è nel mercato dell’auto e il salvataggio obamiano del settore potrebbe aver lasciato il segno. Non dimentichiamo poi che proprio in Ohio, la scorsa estate, la macchina elettorale del Presidente ha speso fior di milioni di dollari in spot e cartellonistica per descrivere Romney come la peggior scelta possibile non solo come Presidente, ma anche come vicino di casa.

Se tra otto giorni Obama si tenesse i 18 voti elettorali dell'Ohio la partita per Romney sarebbe chiusa?
Forse no, perché se diamo ancora retta ai sondaggi statali (i 10 minuti non sono ancora finiti) c’è un altro pezzo di mappa elettorale che dà a Romney l’inattesa possibilità di un “piano B”: il Wisconsin. Uno stato diventato sempre più blu dal 2000 in poi, che nel  2008 ha visto Obama tagliare il traguardo con un vantaggio quasi doppio rispetto a quello nazionale (quasi 14 punti contro poco più do 7), ma che secondo l’ultimo Rasmussen vedrebbe gli sfidanti appaiati al 49%. E anche in questo caso non mancherebbero spiegazioni per una simile inversione di tendenza: una macchina elettorale statale che ha consentito al repubblicano  Scott Walker di insediarsi alla guida dello stato e di confermarsi pochi mesi fa, e la decisione di Romney di scegliersi come vice Paul Ryan, che è originario proprio del Wisconsin.

Se Romney si vedesse sfuggire l’Ohio dovrebbe comunque vincere il Colorado (dove l’ultimo sondaggio lo vede avanti di 4 punti), uno qualunque tra New Hampshire (avanti 50-48 secondo Rasmussen) e Iowa (testa a testa con il vantaggio di un endorsement per niente scontato appena incassato dal primo giornale dello stato: il  Des Moines Register) e se a quel punto gli riuscisse il colpo in Wisconsin sfonderebbe quota 270 diventando il primo repubblicano ad entrare alla Casa Bianca senza aver vinto in Ohio.

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Questo è il piano B di Romney. Riscriverebbe la storia, garantirebbe una notte elettorale da restarci secchi e se questa elezione fosse un film nessuno sceneggiatore sveglio se lo lascerebbe scappare.
Ma i dieci minuti sono passati e io mi tengo il Piano A.


Edit - Un'anticipazione: tra poco Rasmussen pubblicherà il suo ultimo sondaggio in Ohio che per la prima volta dà Romney in testa 50 a 48.

Edit#2Eccolo qua

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venerdì 26 ottobre 2012

Obamnesia



Era iniziata come la storia del candidato post partisan, sceso tra i mortali per riscrivere le regole e le consuetudini di una politica vecchia e meschina.
Perché “la gente ha fame di qualcosa di nuovo, vuole essere chiamata a far parte di qualcosa di diverso dalla politica piccola, limitata, litigiosa che abbiamo visto in questi ultimi anni”. Così parlava Barack Obama da Chicago nel 2006, pochi mesi prima di annunciare la sua candidatura alla Casa Bianca.
Era la nascita del politico 2.0, che non si sporcava le mani con i fatterelli e i bisticci da pollaio di Washington. Lui era venuto per elevarsi al di sopra del chiacchiericcio di parte, per unire dove la “vecchia politica” sapeva solo dividere, per parlare di un mondo nuovo. Hope, Change. Grandi temi, grandi parole e grandi folle, folle da stadio, come solo le rockstar sanno richiamare.
E che non venisse in mente a nessuno di chiedere “come” avrebbe fatto a realizzare tutto quello che prometteva. Non si chiede “coma fai?” a chi sa trasformare l’acqua in vino, no?

Oggi non siamo nel 2006, e nemmeno nel 2008. Siamo nel 2012, Obama è un presidente che cerca la rielezione. Non lo fa parlando di cambiamento, e nemmeno di speranza. Lo fa con la più aggressiva, negativa e distruttiva campagna elettorale che gli USA abbiano visto a memoria d’uomo. Una campagna che questa estate ha speso milioni su milioni di dollari in spot per dipingere l'avversario come un evasore fiscale, un plutocrate senza scrupoli, un nemico delle donne, un affamatore di chi lavora e (credeteci o no) un assassino.

Il primo dibattito ha cambiato la dinamica di questa campagna elettorale non solo perché Romney ha battuto Obama sui fatti e sui contenuti, ma soprattutto perché per la prima volta i quasi 70 milioni di americani davanti al video hanno potuto vedere Mitt Romney senza filtri e si sono resi conto che era un essere umano, sembrava addirittura un brav’uomo. Chi aveva creduto alla campagna obamiana che aveva dipinto Romney come un mostro è rimasto talmente shockato dalla differenza tra quello che sapeva e quello che vedeva che il bounce di Romney è andato perfino oltre i suoi meriti.

Ma, come disse l’Obama messianico del 2008 a Denverse non hai risultati su cui correre cerchi di dipingere il tuo avversario come qualcuno da cui scappare”. Obama di risultati da rivendicare ne ha ben pochi, a parte l’uccisione di Bin Laden e un Nobel per la Pace (cose che stanno bene insieme no?), e non gli resta che il piano B.

Ecco spiegato perché oggi Obama ha messo in soffitta la speranza e il cambiamento, fa polemica sui raccoglitori, parla di Big Bird e di una nuova patologia recentemente scoperta durante un comizio: la Romnesia: una particolare malattia mentale che avrebbe colpito Romney rendendolo incapace di ricordare le sue stesse parole. “Romnesia al terzo stadio come minimo” è stata la diagnosi esatta il giorno dopo il terzo dibattito. La buona notizia per Romney? Obamacare si occuperà di curarlo.



E se per caso a qualcuno fosse sfuggito il messaggio Obama si è accertato di renderlo accessibile e chiaro per tutti nella sua ultima intervista a Rolling Stone chiamando Romney semplicemente un “bullshitter” (traduzione letterale non edulcorata: uno che dice stronzate, nel senso delle balle).
Ecco il punto di arrivo del politico venuto per redimere il mondo dai suoi peccati. La caduta dei consensi resta da verificare, quella di stile ormai è conclamata.

Nel frattempo ieri sono usciti altri cinque sondaggi nazionali. Quattro vedono Romney in testa (con un vantaggio tra 2 e 3 punti), tre lo danno al 50%, ma nemmeno uno dà Obama oltre il 47%. Nessun incumbent si è mai tirato fuori da un buco del genere in meno di due settimane, ecco forse perché l’uomo della speranza è diventato quello degli insulti che parla di amnesie altrui, ma è il primo a dimenticare cosa lui stesso pretendeva di rappresentare quattro anni fa. Obamnesia?
Del politico 2.0 è rimasto solo lo zero

P.S. Qualcuno deve aver detto ai sondaggisti di Washington Post/ABC che un sample con i democratici a +9 (se ne è parlato qui) esiste solo nelle cene di famiglia dei Clinton. Nell’ultimo sondaggio uscito ieri hanno corretto il dato a +4 (Dem 34, Rep 30) e magicamente il +3 Obama è diventato un +3 Romney nello spazio di pochi giorni. Non per niente parliamo della ABC, Anything But Credible.

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giovedì 25 ottobre 2012

Le Previsioni del Voto



A 12 giorni dal voto in America entrambi i candidati si dicono sicuri della vittoria e diversamente dal solito non è facile capire chi stia bluffando perché la media dei sondaggi li dà separati da poche incollature e, quel che è peggio, i dati presi singolarmente oscillano selvaggiamente mostrando a ore alterne Romney avanti di 5, Obama avanti di 4, Romney avanti di 4, Obama avanti di 3.

Ma anche assumendo che ad avere ragione sia questo o quel sondaggista resta il problema che questa elezione si decide sul voto dei singoli stati, non sul complessivo nazionale. Soluzione ovvia:  i sondaggi statali, ce ne sono in abbondanza, ma quanto c'è da fidarsi?
La media RCP nazionale ha i suoi difetti, dà lo stesso peso a sondaggi più o meno seri, ma bisogna ammettere che nel 2004 e nel 2008 ha sbagliato il risultato finale di appena qualche decimale. Le previsioni sugli stati sono altrettanto affidabili? Se ad esempio consideriamo che la media RCP nel 2008 ha mancato il risultato esatto di 2 punti Ohio, 2.5 in Indiana, 3 in Pennsylvania, 3.5 in Colorado, 5 in Arizona e 6 in Nevada il dubbio viene.
In un’elezione come quella 2012, che potrebbe giocarsi su un pugno di voti in due o tre stati, margini del genere possono cambiare tutto.

Una chiave di lettura diversa (che non pretende di sostituire i sondaggi statali, ma di aiutare ad interpretarli) possiamo averla vedendo quali sarebbero i risultati dei singoli stati se questi mantenessero scostamenti dalla media nazionale simili a quelli avuti in passato. Certi stati votano repubblicano più della media nazionale, altri premiano di più il candidato democratico. Non sono tendenze statiche, variano nel tempo, ma non cambiano dall’oggi al domani e se alcuni stati hanno un’evoluzione più veloce (per motivi demografici) altri si mantengono abbastanza stabili.

Se prendiamo i risultati ottenuti dai candidati dei due partiti negli undici swing states nelle ultime tre elezioni e li confrontiamo con il risultato che gli stessi candidati hanno raggiunto su base nazionale otteniamo la tabella qui sotto.

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Prendiamo ad esempio la Pennsylvania: Nel 2000 il candidato democratico Al Gore ottenne nel Keystone State il 50.60%, un dato 1.05 volte migliore del suo risultato nazionale (48.38%).  Per Bush invece il risultato in Pennsylvania (46.43%) fu peggiorativo rispetto al suo dato nazionale (47.87%) e il suo coefficiente è quindi 0.97.
Procedendo così anche per le elezioni 2004 e 2008 ogni partito ha tre coefficienti (K Dem e K Gop) per ogni stato. I coefficienti definiscono un range (intervallo) che varia tra un maSsimo e un minimo.
I colori evidenziano l’evoluzione del voto del singolo stato rispetto alla media nazionale.
Come si vede la Pennsylvania è stabilmente un blue state che dà al candidato democratico un risultato migliore della sua media nazionale (coefficienti democratici sempre maggiori di 1 e coefficienti repubblicani sempre minori di 1), anche se nella tornata del 2008 la tendenza è andata leggermente attenuandosi (il blu è più pallido).

Sono invece “instabili” il Colorado e soprattutto il Nevada, che partono con coefficienti “rossi” e si spostano poi verso il blu. Vuol dire che, se la tendenza si mantiene, per vincerli il candidato repubblicano di turno deve avere un chiaro vantaggio nazionale.

L’obiettivo è quello di trasformare i dati nazionali dei due candidati in probabili range di risultati negli 11 singoli swing states, ipotizzando una distribuzione del voto che vari all’interno di  quella delle ultime tre elezioni.
E’ un sistema che funziona piuttosto bene per gli stati con comportamenti stabili e meno bene per quelli come Colorado e Nevada (elettorato ispanico in veloce aumento) o Virginia e North Carolina (maggiore partecipazione dell’elettorato di colore, che vota per Obama al 90-95% e rende poco significativi i riferimenti del 2000 e del 2004).

Se per il dato nazionale ci affidiamo ad una media degli ultimi sondaggi Rasmussen (che hanno oscillato tra Romney 47 – Obama 46 e Romney 50 – Obama 46)  e ipotizziamo Romney al 48.5% e Obama al 46% (alla fine entrambi avranno numeri più alti via via che gli indecisi prenderanno posizione) si ottengono questi range.

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Per i quattro stati più “instabili” (Colorado, Nevada, North Carolina e Virginia) si hanno (in teoria) risultati migliori dalla versione del modello tarata unicamente sulla distribuzione del voto del 2008.

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E questa è la mappa elettorale corrispondente: Romney a 266 voti elettorali, con l'obbligo di portare a casa almeno uno tra Colorado, Iowa e New Hampshire (che lo vedrebbero in testa di misura) per superare la "magica" quota 270.

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Se confrontiamo i range dei distacchi così "previsti" con quelli degli ultimi sondaggi statali Rasmussen si vede subito che due stati stonano ai limiti del margine d’errore: Colorado e Ohio.

Il 50-46 per Romney previsto l'altroieri da Rasmussen farebbe pensare ad un Colorado che si muove indietro verso il 2004. Visto il suo continuo spostamento verso il blu dell’ultimo decennio ci si aspetterebbe una gara più ravvicinata.

In Ohio invece succede il contrario: un candidato repubblicano avanti su base nazionale non dovrebbe avere problemi a portare a casa i 18 voti elettorali del Buckeye State, invece ancora oggi nessun sondaggio ha dato Romney in testa e l’ultimo Rasmussen dà lui e Obama appaiati al 48%. Se non si tratta di un grosso abbaglio collettivo vuol dire che quest’anno gli effetti del salvataggio obamiano del settore auto (spina dorsale dell’economia da quelle parti) potrebbero portare l’Ohio ad uscire decisamente dal suo range, diventando più ostico per Romney di quanto si poteva prevedere.

Per andare alla Casa Bianca Romney deve quasi certamente vincere l’Ohio e molto probabilmente anche il Colorado (che può però essere sostituito da Iowa o New Hampshire). Sono queste le gare che decideranno chi andrà alla Casa Bianca.

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martedì 23 ottobre 2012

Hope and Change



Nel mezzo di una crisi chi volete che risponda al telefono della Casa Bianca alle 3 del mattino?” il dibattito di stanotte in Florida doveva aiutare gli americani a rispondere a questa domanda per scegliere il loro comandante in capo per i prossimi quattro anni. E’ un test che tutti gli inquilini della Casa Bianca hanno dovuto passare.

Nel caos di sondaggi a tinte alterne non è facile stabilire con certezza chi sia in testa oggi, ma sono bastati dieci minuti di dibattito per capire chi sentiva di dover rincorrere.
Romney aveva chiaramente deciso di volare alto stanotte: niente polemiche, niente battibecchi. Apparire presidenziale era l’obiettivo e per perseguirlo ha sacrificato (a sorpresa, e con il probabile disappunto di molti) la polemica sulla Libia, sorvolando completamente sulla domanda iniziale che sembrava un invito a nozze per rifarsi dell’incidente del dibattito di New York.
D’altra parte Obama ha infilato un attacco diretto a Romney in ogni singola risposta data in 90 minuti di dibattito, tanto che il suo avversario per ben due volte gli ha ricordato che “attaccare me non è un’agenda politica”.

Sul medio oriente, sulla Siria, sull’Afghanistan, sull’Iran, Romney ha fatto diligentemente il suo lavoro: risposte sensate e nessuno scivolone, ma Obama era chiaramente più padrone della materia dopo quattro anni passati nello Studio Ovale. Dava quasi sempre l’impressione che gli restasse più di una cosa da dire quando i suoi due minuti canonici scadevano, raramente si poteva dire lo stesso del suo avversario che ha finito per dargli ragione qualche volta più del dovuto.

Ma nessuno dei due sfidanti intendeva passare un’ora e mezzo a parlare solo di cose che succedono fuori dai confini dell’America e quando Romney ha indicato il debito pubblico come la più grande minaccia per la  sicurezza nazionale degli USA, spostando i riflettori sull’economia, entrambi ci si sono fiondati senza mollare l’osso per almeno dieci minuti. Da quel momento ogni scusa è stata buona per mettere da parte il medio oriente e parlare di cose che riguardano più da vicino il futuro di chi stava ad ascoltare.
E sull’economia è stata un’altra musica: che si parlasse di deficit o di rilancio delle imprese era Romney a dare l’impressione di avere sempre una cosa in più da dire.
Come rendere l’America più sicura e rispettata all’estero? Rafforzando la sua economia. Come trovare i soldi per evitare i tagli all’esercito? Facendo piazza pulita dei programmi che servono solo a svuotare le casse, primo della lista: Obamacare.

Tirando le somme: Romney sulla politica estera ha badato a non prenderle, non ha tentato il tiro da tre punti su un campo in cui il suo avversario si muoveva  meglio di lui, ma ha avuto il suo  momento quando ha rinfacciato al presidente il suo “apology tour” di inizio mandato “L’America non si comporta da dittatore con le altre nazioni, l’America libera dai dittatori le altre nazioni”.  
Ha assicurato agli americani di non avere guerre in agenda. Come Reagan nel 1980 si è tolto di dosso lo stereotipo del repubblicano a cui piace giocare a Risiko con il mondo e ha passato il test da comandante in capo.

Obama ha giocato un’altra partita. Se sia o meno in svantaggio ce lo diranno con certezza solo le urne, di sicuro si è comportato come se lo fosse. Tra un attacco e l’altro, quando era costretto ad ascoltare il suo sfidante, lo guardava come se fosse infastidito dal fatto stesso che fosse lì. E’ stato più aggressivo, più deciso. Efficace ma meno presidenziale.
Alla battuta iniziale di Romneyci siamo visti pochi giorni fa in un contesto umoristico, magari stasera uno di noi farà ridere senza volerlo” il presidente ha abbozzato un sorriso di etichetta  totalmente diverso dalla risata a 48 denti esibita nei primi secondi del dibattito inaugurale di Denver, quando Romney aveva scherzato sul suo anniversario. Chi aveva occhi per vedere in quel momento ha potuto misurare quanto questa gara sia cambiata negli ultimi venti giorni.

Obama ha vinto sulla politica estera, che era il tema del giorno (l’instant poll della CNN gli assegna la vittoria per 48 a 40, un distacco all’interno del margine d’errore, mentre la CBS parla di una vittoria più netta), ma Romney ha segnato ancora sull’economia, che è quello che più di ogni altra cosa importa (e importerà) a chi stava guardando. Nel suo appello finale Romney ha parlato di ottimismo, di un futuro diverso e più prospero e l’ha fatto con l’espressione di chi ci crede, anche se chiaramente stava recitando un copione provato e riprovato. La fiducia nel futuro dell’America era mancata in questa campagna elettorale. Romney l’ha messa al centro del palcoscenico nel momento in cui c’erano più occhi a fissarlo e il suo avversario non aveva più battute. Quattro anni dopo “Hope and Change” sono tornati, ma stavolta parlano repubblicano.


Edit: Altro instant poll della PPP (di dichiarato orientamento democratico): Obama vince 53 a 42. Ma tra gli indipendenti Romney porta a casa un +12 (47 a 35) sulla domanda più importante "questo dibattito ha reso più o meno probabile che tu voti per Romney?", mentre Obama sullo stesso quesito incassa un -16 (32 a 48) e questo malgrado lo stesso sondaggio lo veda vincitore tra gli indipendenti con 15 punti di margine (55 a 40). E' l'effetto economia o forse semplicemente a questi instant poll si finisce per dare più peso del dovuto.

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lunedì 22 ottobre 2012

Il Campione



Siamo nelle mani del campione. Non sono parole di un allenatore, non si parla di sport, ma di sondaggi e di come leggerli.
L’unico modo per orientarsi e rimanere sobri nell’orgia ubriacante di numeri che ci piovono in testa dall’America tutti i giorni è non perdere mai di vista il campione.
Il campione, o sample, è l’insieme di quelle poche centinaia, o migliaia, di persone che il sondaggista di turno ritiene rappresentativo dell’intero corpo elettorale.

Nelle ultime battute di questa campagna presidenziale tutti i sondaggisti sono ormai passati dal modello dei “votanti registrati” a quello dei “votanti probabili” (likely voters) e anche per questo vediamo numeri così diversi da un sondaggio all’altro, perché costruire un modello sui likely voters è un’arte. Significa dover fare previsioni precise su chi effettivamente si recherà alle urne e chi invece resterà a casa.

Gli elettorati si possono scomporre in tante categorie o generi a seconda che si parli di etnia, sesso, credo religioso, etc. Quello americano in particolare può scomporsi tipicamente in tre gruppi: repubblicani, democratici e indipendenti.
Per ogni candidato presidente la via per la Casa Bianca passa per la vittoria tra gli indipendenti e al tempo stesso per un’alta affluenza (turnout) della base del suo partito.

Secondo gli exit poll della CNN nelle ultime tre elezioni presidenziali i rapporti di forza tra convinti democratici e convinti repubblicani sono oscillati tra una leggera prevalenza democratica nel 2000 (39 a 35), un pareggio nel 2004 (37 a 37) e una decisa prevalenza democratica nel 2008 (39 a 32). Malgrado il margine d'errore sono numeri che danno comunque un’idea di cosa aspettarsi.

Negli ultimi giorni tre sondaggi in particolare hanno consentito una risalita di Obama nella media RCPVediamo quello che c’è dentro per capire se sono prodotti da "comprare" o se è meglio lasciarli sugli scaffali.

IBD/TIPP  (Obama +5.7): Il sample ha un 37% di democratici, 30% di repubblicani, 32% di indipendenti. Se credete che l’elezione del 2012 sia parente stretta di quella del 2008 (quando il discredito repubblicano da una parte, e l’effetto “messia” dall’altra, avevano fatto schizzare il gap tra i due elettorati proprio a 7 punti) allora questo sondaggio fa per voi.  Diversamente, come fa il sottoscritto, lasciatelo sullo scaffale.

Stesso discorso (e stesso scaffale) per l’ultimo Hartford Courant (Obama +3) costruito su un sample mai visto prima che fa quasi scomparire gli indipendenti (15%) e dà un bel +8 ai Dems (47 a 39).

Ancora meglio fa l'accoppiata WashingtonPost-ABC (Obama +3). Sample con 35% Dem, 26% GOP, 33% Indipendenti. Qui siamo a +9 per i Dems, roba da far impallidire anche il turnout del "magico" 2008. Consiglio uno scaffale a parte.

Gallup (attualmente con Romney +7) ha un sistema tutto suo e non "pesa" il sample per appartenenza politica, difficile valutarlo. Prendetelo se vi piace il colore.

Rasmussen si colloca più ragionevolmente a metà strada tra il 2004 e il 2000 (due elezioni che somigliano a quella di quest’anno molto più di quella del 2008) con una prevalenza democratica tra 2 e 3 punti (è una stima, il dato non viene dichiarato).
Con questo campione Rasmussen ieri assegnava un +2 a Romney (49 a 47)  e il risultato è ancora migliore se ci si limita agli 11 stati in bilico+4 (50 a 46).
L’ultimo dato è interessante perché nel 2008 il risultato combinato di questi 11 stati ha riprodotto con differenze di appena qualche decimale quello complessivo, e si può quindi prendere come un tracking nazionale “ristretto”. Se la verità fosse in un punto qualsiasi tra questi due dati quella del 7 novembre potrebbe essere un’alba nuova per l’America.

Con Romney che ha ormai messo al sicuro il North Carolina (tanto da aver già iniziato a smobilitare nel Tar Heel State ) e con i numeri di Virginia e soprattutto Florida che sembrano seguire, all'appello manca solo  l’Ohio per intravedere una notte in cui uno qualsiasi tra ColoradoIowaNew Hampshire (e se proprio vogliamo anche Wisconsin) basterebbe a far rientrare l’elefantino alla Casa Bianca.
Stanotte terzo e ultimo dibattito sulla politica estera. Mantra del giorno: la gara resta aperta (ripetere almeno tre volte).

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venerdì 19 ottobre 2012

Can We Panic Now?



Sta davvero succedendo qualcosa di grosso? Romney è in testa nella media nazionale RCP da ormai dieci giorni. Nei dodici mesi precedenti non lo era mai stato nemmeno per un’ora.
L’ultimo sondaggio Gallup, uscito ieri sera, ha ampliato il distacco tra i due candidati a ben 7 punti. Con numeri del genere - Romney al 52% e meno di venti giorni al 6 novembre -  il terzo dibattito potrebbe anche essere rimandato a dopo le elezioni, non farebbe differenza.
Per quanto Gallup sia il più “istituzionale” dei sondaggisti americani (tanto da avere il compito di selezionare gli 80 elettori indecisi per il town hall debate) non si può però ignorare che nessun altro sondaggio, almeno finora, dà Romney sopra il 50% .
Ma se Romney al 52% è un dato isolato (quindi da prendere con le molle) ce n’è un altro che tende invece a ricorrere con una certa frequenza nelle rilevazioni delle ultime due settimane: Obama che oscilla pericolosamente tra il 45 e il 47%.
Ricapitoliamo: nessuno sfidante ha mai perso l’elezione dopo essere stato oltre il 50% a metà ottobre e raramente un incumbent che in questo stesso periodo stazioni al 45-47%  riesce a farsi rieleggere. Il primo sarà anche un dato isolato, ma il secondo non lo è.

E’ vero che questa elezione non si vince sul totale nazionale, ma sui voti elettorali dei singoli stati. La conventional wisdom ci direbbe di guardare i sondaggi statali più che il dato nazionale. Joe Trippi, stratega del campo democratico, l’ha ribadito ieri su Fox News: “importa poco se Obama perde 5 punti in California o Romney ne guadagna 4 in Texas”, come a dire: spostamenti del genere muovono il dato nazionale ma non cambiano l’esito della gara. Sono gli swing states a contare.
Ma per quanto il ground game e le dinamiche locali siano importanti gli stati non sono delle isole. Per ogni elettore che cambia idea in California ce n’è probabilmente un altro che perlomeno si pone il problema in Ohio o in Virginia. Elezione dopo elezione ci sono stati che votano repubblicano (o democratico) più della media della nazione, altri che lo fanno di meno.
Non sono tendenze statiche, nel tempo possono variare fino anche cambiare segno, e in certe realtà come il Colorado o il New Mexico i cambiamenti demografici accelerano il processo, ma non succede dall’oggi al domani.
Se si conoscono queste tendenze i numeri nazionali di un candidato possono da soli dare un’idea di dove si fermerà la sua asticella in molti degli stati dove si decide l’elezione.

E proprio la posizione di questa asticella, sempre più spostata verso il rosso, turba i sogni notturni e diurni del campo democratico, con la preoccupazione serpeggiante che a momenti sembra assumere i connotati del  panico.

Come spiegare altrimenti la ridicola campagna sui “raccoglitori pieni di donne”? L’espressione usata da Romney nel secondo dibattito non sarà stata delle più raffinate, ma il tentativo di farne un tema centrale della campagna (come se non ci fossero cose più serie di cui parlare) e venderlo come un imperdonabile insulto alle donne, con tutta l’indignazione (costruita) che ne è seguita, denota uno stato d’animo che Joe Scarborough non ha esitato a bollare come “disperazione”.

E per una Rachel Maddow che ha messo da parte “Hope and Change” per spendere 15 minuti tentando di   dimostrare che Romney e Bush (43) pari sono, puntando l’indice ad esempio sul fatto che Paul Ryan si sia fatto vedere in pubblico con Condoleezza Rice (Orrore! Stupisce che non l’abbiamo arrestato in flagranza di reato), nello studio vicino c’è un Chris Matthews - il campione del “chi la picchia più dura la vince” - che arriva a ipotizzare che Romney, nel dibattito di martedi scorso, abbia violato la Costituzione degli Stati Uniti nel rivolgersi senza la necessaria deferenza al presidente.
Questo magari non sarà panico, ma certamente è indice di una lucidità che ha visto giorni migliori.

Nel frattempo i due sfidanti si sono ritrovati in versione “gran sera” alla cena della Alfred E. Smith Memorial Foundation, che tradizionalmente è il momento da “risate a scena aperta” della campagna presidenziale. Romney e Obama avevano entrambi del buon materiale e non hanno deluso le aspettative. Ma se il presidente aveva già avuto modo di mostrarsi in versione “entertaining”, per molti americani il Romney di ieri sera è stato una prima visione assoluta. Un’occasione per guadagnare terreno su uno dei pochi campi in cui Obama lo lascia ancora decisamente indietro: la likability.

Finite le risate si tornerà ai toni forti in attesa del terzo e ultimo dibattito (lunedi notte). E mentre uno spot di American Crossroads mostra a Romney come mettere al tappeto il presidente sulla Libia in 106 secondi (usando le parole della sua stessa amministrazione) alcuni di quelli che pensavano che Obama (come certe banche) fosse “too big to fail” iniziano a chiedersi quanto forte sarà il tonfo.
La partita resta aperta, ma Romney a novembre si giocherà una mano migliore di quella che chiunque gli avrebbe concesso appena 15 giorni fa.

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giovedì 18 ottobre 2012

Da Una Storia Vera



Seguire le notizie sui media nostrani ormai è come passare una serata al cinema,  le notizie stanno ai fatti come i film stanno ai libri da cui sono tratti: Sono “liberamente ispirate a”. Poi c’è lo sceneggiatore che romanza quel tanto che basta per rendere il prodotto vendibile, c’è la colonna sonora che massimizza l’impatto emotivo, e all’occorrenza possono spuntare fuori personaggi inventati qua e là per riempire qualche buco nella trama.

L’ultimo film l’abbiamo visto ieri sera.
Obama vince il secondo dibattito e pareggia il conto” abbiamo letto un po' ovunque e “stavolta sono tutti d’accordo” sentenziava il TG5 (edizione della 20:00): Romney ha vinto l’andata, Obama ha vinto il ritorno. Pari e patta. Uno a uno. Aspettiamo lo spareggio.
Poi però uno pensa che nel primo round Romney ha messo a segno la più netta vittoria della storia dei dibattiti presidenziali americani, con un distacco variabile tra 42 e 52 punti, e conclude che per recuperare una batosta simile, che ha spostato l’equilibrio della gara più di quanto chiunque si sarebbe aspettato, Obama aveva bisogno di prevalere con uno score almeno paragonabile.

L’ha fatto? Vediamo: finora sono disponibili solo due instant poll sul dibattito di martedi:
Il primo è quello della CBS che dà Obama vincitore per il 37% degli intervistati, Romney per il 30% mentre per il 33% è stato un pareggio, con il 4% di margine d’errore su ciascuna di queste cifre.
In un match in cui Obama aveva bisogno di un’affermazione netta il 63% degli intervistati non lo ha indicato come vincitore. E più o meno la stessa percentuale (65% contro 34%) ha assegnato la preferenza a Romney sull’economia.
Il secondo sondaggio, quello che avete sentito citare in lungo e in largo dalle nostre parti, è quello della CNN: Obama vincente per il 46%, Romney per il 39% con un 15% di indecisi (4.5% di margine d’errore).
Se però non ci si ferma al titolo e si vanno a leggere i dati si scopre che, anche in questo caso, Romney risulta in vantaggio sull’economia (58 a 40), ma anche sul deficit (49 a 36), sulle tasse (51 a 44), sulla “leadership forte” (49-46) e sulla sanità (49-46). Ovvero su tutto quello che passa per la testa dell’americano medio quando va a votare.
Lo stesso sondaggista della CNN attribuisce la percezione della vittoria risicata di Obama nel suo campione al “gioco delle aspettative” (che nel caso del presidente erano le più basse possibili dopo la disfatta di Denver) e conclude che dal punto di vista dell’elezione di novembre il dibattito "va considerato un pari" perché gli spostamenti di consenso, se ci sono stati, si sono annullati a vicenda.

Avete mai visto una squadra vincere 6-0 l’andata, pareggiare, o perdere con un goal di scarto il ritorno, e andare ai tempi supplementari? No. Perché non è un pareggio.

Ma il TG1 delle 13:00 ieri si è spinto oltre, riferendo di fantomatici sondaggi in cui, dopo il dibattito, il presidente era in risalita. Considerando che ancora oggi non esistono sondaggi con dati post-dibattito si fa fatica a capire a cosa facesse riferimento ieri la conduttrice di “mamma Rai”.

Intanto nel mondo reale Romney conduce con un vantaggio che oscilla tra 1 e 2 punti secondo Rasmussen e ieri si è visto assegnare un +6 da Gallup (troppo bello per essere vero) che deve aver rovinato più di una digestione tra Washington e Chicago.

In attesa di misurare l’impatto del round di martedi la gara resta aperta. Per tutti tranne che per gli Obama boys e e le Obama girls sparsi per le redazioni.
Per loro la partita è archiviata da tempo. O almeno dovrebbe esserlo in un mondo perfetto in cui i fatti vengono rimpiazzati dalle fantasie di chi scrive sui giornali, fantasie in cui ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale.

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mercoledì 17 ottobre 2012

Romney-Obama: Round 2



Poche ore fa Barack Obama e Mitt Romney si sono presentati alla Hofstra University nello Stato di New York, ottanta elettori indecisi li aspettavano in sala per porre loro delle domande e qualche decina di milioni di persone davanti ai teleschermi era in attesa delle risposte. Gli sfidanti hanno fatto il loro ingresso tra sorrisi e saluti, si sono stretti la mano e se le sono suonate per 90 minuti.

Obama era entrato nel dibattito inaugurale di Denver con una leadership nei sondaggi mai interrotta per dodici mesi, ma ha visto il mondo cambiargli intorno nelle ultime due settimane. Con l’ultimo sondaggio Gallup, uscito poche ore prima di andare in scena che lo dava ben 4 punti dietro, ed un rivale che per la prima volta si affacciava a quota 50%, era chiaro chi dei due avesse terreno da recuperare. Ad enfatizzare il concetto ci aveva pensato Chris Matthews, che dai microfoni di MSNBC si era spinto a dire che “se Obama non sarà all’altezza della situazione qualcosa di storico inizierà a morire stanotte”.

Con queste premesse quella di New York non poteva essere una serata tranquilla, e non lo è stata. Se il primo dibattito era stato un duello al fioretto questo è stato un match di boxe: gli sfidanti si sono attaccati, interrotti, in un confronto che a tratti è sembrato quasi fisico “ad un certo punto ho pensato che venissero alle mani” è stato uno dei tanti commenti su Twitter.
Romney ha comandato la partita nella prima metà del dibattito: sull’economia, dal lavoro alle tasse passando per il deficit, ha avuto buon gioco nel puntare l’indice sui risultati fallimentari del presidente “Io ho un piano per fare meglio e l’ho già fatto come governatore”.
Sull’energia gli è bastato ricordare il raddoppio del prezzo dei carburanti per sollevare dubbi sull’efficacia della politica di Washington.
Sull’immigrazione ha rinfacciato al presidente la sua promessa del 2008 di far approvare una legge ad hoc nei suoi primi dodici mesi di mandato, mentre a quattro anni di distanza il congresso aspetta ancora la sua proposta.
E quando Obama ha accusato il suo sfidante di fare investimenti in Cina Romney è stato pronto ed efficace nel ribattergli in faccia che anche i fondi di investimento che gestiscono la pensione del presidente fanno la stessa cosa.

Inaspettatamente però Romney è andato fuori misura sul colpo più facile.
Nel momento in cui i riflettori si sono spostati sulla Libia devono essere stati in molti nel campo repubblicano a fregarsi le mani. Da giorni l’amministrazione Obama è all’angolo sull’argomento, e tra smentite imbarazzate, rimpalli di responsabilità e ammissioni tardive, tutto lascia pensare che lo resterà nelle prossime tre settimane. Quando è stato chiesto a Obama chi fosse il colpevole per aver negato maggior protezione all’ambasciata di Bengasi il presidente non ha nemmeno provato a rispondere alla domanda, rifugiandosi in una melina di affermazioni generiche sul valore del personale americano all’estero.
Romney aveva la porta vuota davanti, ma ha spedito il pallone in tribuna facendosi coinvolgere in un battibecco sul fatto che Obama avesse o meno usato l’espressione “atto terroristico” nel suo primo discorso dopo l’attacco. Un battibecco che il presidente ha accolto a braccia aperte, essendo questo l’unico aspetto della vicenda su cui sapeva di poterne uscire incolume senza dover alterare troppo i fatti. Gli è bastato dire “Controlla il testo del mio discorso” per tirarsi fuori dai guai.
Romney aveva ragione in generale, ma si è attaccato alla parola sbagliataha commentato a caldo la moderatrice del dibattito Candy Crowley, ai microfoni della CNN. Un rigore sbagliato.

Quello scambio ha modificato la dinamica del dibattito: da lì in poi Obama è parso più a suo agio e la possibilità di avere l’ultima parola sulla domanda conclusiva gli ha permesso di sferrare l’ultimo attacco sul famoso 47% senza che Romney potesse rispondere, lasciando il pubblico con l’immagine del presidente che dà l’ultimo gancio prima del gong di chiusura. E l’ultima immagine è quella che resta più impressa. Non sorprende quindi che entrambi gli instant poll condotti sul dibattito subito dopo lo spegnimento delle telecamere vedano gli sfidanti separati da un distacco prossimo al margine d’errore (niente a che vedere con i 50 punti di distanza del primo round) ma con Obama davanti (anche per le basse aspettative dopo il disastro di Denver): 46 a 39 secondo la CNN e 37 a 30 per la CBS.

Gli stessi instant poll che danno Obama vincitore di misura del dibattito (con la stessa CNN che parla di un sostanziale pari) lo vedono però soccombere senza appello sull’economia: 65 a 34 secondo la CBS, 58 a 40 per la CNN. E nella cabina elettorale è l’economia a contare. “It’s the economy, stupid” diceva nel 1992 Bill Clinton, la buona notizia per Romney è che vent’anni dopo è ancora così.
Ma il rigore sbagliato sulla Libia è stato di quelli da mettersi mani nei capelli. Romney avrà modo di rifarsi sull’argomento lunedi prossimo, nel terzo e ultimo dibattito della serie, tutto sulla politica estera.

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lunedì 15 ottobre 2012

Advantage Romney?



Ho avuto una serataccia e il Governatore Romney ha avuto una buona serata. Ma la cosa importante è che i fondamentali di questa gara non sono cambiati”. Così Barack Obama pochi giorni fa tirava le somme della peggior settimana (almeno finora) della sua campagna per la rielezione.
I fondamentali non sono cambiati, è vero, ma se si parla dei fondamentali dell’economia americana non è che dalle parti di Pennsylvania Avenue ci sia molto da festeggiare perché nessun presidente è riuscito a farsi rieleggere nella situazione in cui Obama si presenta al voto di novembre: la disoccupazione sopra l’8% per 43 mesi consecutivi (che è scesa al 7.8% nel mese di settembre solo perché sempre più persone rinunciano a cercare lavoro e quindi “escono” dal denominatore della statistica), un debito pubblico esploso oltre il 100% del GDP (il nostro PIL) e una crescita economica al ritmo di lumaca (noi in Italia metteremmo la firma per un Pil che cresce dell’1%, ma negli USA sono abituati a standard diversi).

E’ convinzione abbastanza comune che Obama sia in corsa per farsi rieleggere malgrado i suoi risultati, più che in forza di essi. Normalmente numeri come quelli elencati sopra hanno sul retro l’invito a lasciare la stanza ad un nuovo inquilino con un preavviso di diversi mesi. Nel caso di Obama non è così e in molti si sono chiesti perché.
La risposta è in una parola sola: Likability, ovvero la capacità di piacere. E non c’è dubbio che Obama ne abbia più di tutti gli sfidanti che si è trovato a fronteggiare da quando è diventato “presidential material”.
Obama non trasmette il calore di un Reagan o di un Clinton, è molto più a suo agio davanti alla platea distante e senza volto di un’arena che nel contatto diretto con le persone, ma la sua retorica davanti al teleprompter, unita al seguito adorante di buona parte dei media d’America, lo hanno reso oggetto in questi anni di una specie di culto della personalità: qualunque sia la tua opinione lui è sempre la persona più intelligente nella stanza. Che ti piaccia o no non puoi non esserne intimidito. E se non vedi i suoi risultati è perché non sai dove guardare, è colpa tua, meglio far finta di niente e continuare ad applaudire o qualcuno se ne accorgerà.
Ecco perché il dibattito di Denver ha prodotto effetti così dirompenti: Romney è stato il primo a far  apparire Obama come qualcuno con poco da dire. Cose che i culti della personalità digeriscono male.
In un colpo solo Romney è passato da inseguitore senza speranza a front runner, tanto che è forse ora di rivedere i paragoni: l’ex governatore del Massachusetts somiglierà pure al John Kerry del 2004 ma oggi la sua posizione ricorda quella di Bush 43 nello stesso anno: avanti nella media RCP di 1.3 punti con poco più di 20 giorni all’elezione. Nella storia recente nessuno sfidante è andato in testa nel mese di ottobre senza vincere l’election day e anche Bush, che sfidante non era, si fece bastare quel vantaggio per restare in sella per altri quattro anni.

Tutto in discesa dunque? No. E non solo perché a separarci dal 6 novembre ci sono ancora due dibattiti in cui Obama cercherà la rivincita, ma anche perché dal 2004 molte cose sono cambiate in America, ad iniziare dalla demografia.
Tra gli stati in bilico North CarolinaFloridaVirginia e Ohio tendono a dare al candidato repubblicano di turno un risultato superiore alla sua media nazionale (molto superiore nel caso della North Carolina,  poco superiore o uguale nel caso dell’Ohio). Se facciamo un gioco e ipotizziamo che questo scenario si ripeta anche nel 2012 (tralasciando per un momento il fatto che quest’anno in Ohio il “fattore auto” potrebbe perturbare questa tendenza) un Romney che arrivasse a novembre in vantaggio di 1.3 punti nel voto popolare potrebbe aspettarsi di avere in tasca 266 voti elettorali.



Grasso che cola rispetto ai numeri che circolavano solo un paio di settimane fa. Ma 266 voti elettorali non bastano. Per vincere Romney avrebbe bisogno di incasellare almeno un altro stato, ed è qui che iniziano i problemi.
Nel 2004 Bush portò a casa Nevada e Colorado con un vantaggio su Kerry superiore a quello registrato nel voto popolare nazionale. Erano stati che votavano repubblicano più della media della nazione.
In questi otto anni la crescita dell’elettorato ispanico ha sostanzialmente modificato questo scenario. Se la distribuzione del voto risultasse identica a quella del 2008 un Romney in vantaggio a livello nazionale di 1.3 punti   perderebbe il Nevada di quasi 4 punti e lascerebbe sul campo al fotofinish anche il Colorado (oltre a New Hampshire e Iowa), perdendo l’elezione 272 a 266.


Certe tendenze si evolvono nel tempo in modi solo in parte prevedibili e ipotizzare una distribuzione del voto identica a quella di 4 anni fa è una pura ipotesi di scuola. Ma se nel 2000 fu il democratico Al Gore a perdere l’elezione pur avendo raccolto più voti del repubblicano Bush quest’anno non si può escludere lo scenario opposto.

Anche per questo Romney non può accontentarsi del vantaggio risicato che i sondaggi gli danno da qualche giorno e più che difendere i punti acquisiti deve cercare di segnarne di nuovi. A cominciare da domani notte, nel dibattito in formato town hall, con un pubblico di elettori indecisi a fare le domande agli sfidanti.
Nel 1992 il primo town hall debate mise la pietra tombale sulle speranze  di rielezione di Bush 41. Alla domanda “come sei stato toccato personalmente dal debito pubblico?” Bush, che si era appena fatto pizzicare dalla telecamera a guardare l’orologio, rispose con imbarazzo e in termini generici. Clinton si avvicinò alla donna di colore che aveva posto la domanda e le disse “parlami ancora di come ha toccato te”. A metà di quella frase le valigie dei Bush erano già in viaggio per il Texas. La capacità di relazionarsi con i problemi della gente comune è la chiave del successo in questo tipo di dibattito.


Martedi dobbiamo aspettarci un Obama più aggressivo di quello di Denver, ma attaccare troppo l’avversario quando la gente ti pone questioni sulla sua vita di tutti i giorni non è una strategia vincente, perché il pubblico a casa si identifica molto di più con un elettore indeciso che con un moderatore di professione e trasformare le sue domande in pretesti per dare addosso a chi sta dall’altra parte dello studio non è telegenico. Il metodo Biden forse dovrà aspettare.

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