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venerdì 7 dicembre 2012

Tutti giù dal Monti



Di fatto il Pdl non fa più parte della maggioranza che sostiene il governo Monti. L’astensione non è un voto contrario ma marca una discontinuità, come direbbero i Follini di ieri e di oggi (i vari Bocchino, Briguglio e Granata, se qualcuno se li ricorda ancora).
Si potrebbe dire “finalmente”, ma in realtà c’è poco da festeggiare, questo governo di calamità nazionale (nel senso che è stato una calamità, non che è nato per reagire ad una calamità) non avrebbe mai dovuto esistere,  il solo averlo fatto nascere ha voluto dire, per il centrodestra, rinnegare l’unico vero valore  portato alla politica italiana negli ultimi 20 anni, e cioè che i governi escono dalle urne e non dai piani alti dei palazzi.
Un anno fa erano in tanti a dire che, vista la situazione di emergenza, la democrazia era un lusso che non potevamo più permetterci, dopotutto la democrazia nessuno è mai riuscito a metterla in mezzo al pane, no?
E’ vero, la democrazia non si mangia, ma la storia insegna che nei paesi in cui la democrazia è stata trattata come l’abbiamo trattata noi alla lunga anche pane e companatico ne hanno risentito. E l’Italia non ha fatto eccezione: un anno di governo di tecnici eletti da nessuno ci consegna un paese precipitato in recessione,  un’economia sepolta sotto una valanga di tasse e un pareggio di bilancio che, malgrado i ripetuti salassi, non è neanche in vista.

Ci sarebbero state mille occasioni per “rompere”, o almeno per prendere le distanze, in questi tredici mesi di guerra dichiarata all’economia privata, dal commercio alla piccola impresa, con la ciliegina finale del salatissimo saldo IMU servito come antipasto del pranzo di Natale, che darà il colpo di grazia anche alle speranze di una boccata d’ossigeno festiva dei consumi. Ennesimo, ma forse non ultimo, colpo di genio del governo bocconiano che una ne fa e cento ne sbaglia.
Mille occasioni. Ma per assistere al cambio di linea del Pdl abbiamo dovuto aspettare che tale Corrado Passera da Como pronunciasse frasi poco amichevoli nei confronti di Berlusconi.
Si doveva farlo prima. Si doveva farlo per un motivo migliore. Non certo per rispondere al chiacchiericcio mattutino di un futuro signor nessuno, che passerà alla storia solo per essere stato il ministro dello sviluppo economico dell’unico governo della storia repubblicana a non aver conosciuto nemmeno un trimestre isolato di crescita nel corso del suo mandato.

Si è temporeggiato per rincorrere il “signor Casini” (Pierfurbi per gli intimi) e la chimera della ricomposizione dei moderati. Eppure bisognava aver capito da un pezzo che Casini non è in cerca di scelte di campo. A Casini interessa un sistema in cui il centro possa di volta in volta allearsi a urne chiuse con chi vince senza mai uscire dalla stanza dei bottoni. Per farla breve: a Casini interessa Casini, e qualunque sia la dote di voti a sua disposizione è meglio lasciare che sia un problema di qualcun altro.
Proprio Pierfurbi ieri, in piena trance montiana, ha citato a memoria un vecchio adagio del "professore in capo" giusto giusto di un anno fa: Prima di Monti l’Italia rischiava di non poter più pagare gli stipendi ai dipendenti pubblici.
Pericolo scongiurato. Peccato che per lasciare tutto com’era in una pubblica amministrazione che con tutta evidenza non serve a dare servizi agli amministrati, ma stipendi agli amministratori, oggi contempliamo uno scenario post bellico in cui ci sono quasi 600.000 disoccupati in più rispetto ad un anno fa.

Ma non sono questi i numeri che fanno notizia. Ieri all’improvviso si è tornati a parlare dello spread, salito da 311 a 327 in 24 ore. “Segno che senza Monti sull’Italia tornerà la bufera” hanno sentenziato i soliti analisti senza nome, quelli che un anno fa ci avevano assicurato un calo secco di 100-200 punti del temuto indice non appena Monti avesse varcato la soglia di Palazzo Chigi, gli stessi che hanno poi assistito in sonnacchioso silenzio alla sua permanenza sopra quota 500 fino ad estate inoltrata e che oggi profetizzano catastrofi per un’oscillazione di una quindicina di punti.

Si vada alle elezioni. Lo si faccia il prima possibile, siamo già in ritardo di un anno.
Il centrodestra queste elezioni le perderà perché fino a ieri non ha fatto niente per vincerle. Il successore di Monti facilmente riuscirà a fare anche peggio di lui. Ma è meglio un cattivo premier votato dal popolo che uno  scadente, o appena passabile, scelto per concorso.
Prima di parlare di vincere le elezioni c’è da ritrovare la propria identità. E c’è da dire qualcosa di liberale, già che ci siamo.

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